Tubi intasati

«Lo fai tu il caffè?»

«Devo proprio?»

Mamma legge il mio labiale dall’altra parte del tavolo, le parole sovrastate dal chiacchiericcio dei parenti. Antonio ha venduto il terreno, adesso quel campo lì lo riempiono di cemento sta dicendo la nonna, con quella sua cadenza lamentosa che tira sempre fuori quando deve parlare dei vicini di casa o commentare le nuove terapie che le affibbia il medico della mutua. Zia risponde con un’invettiva degna di una conferenza stampa sulla tutela ambientale del pianeta.

«Dai, che ti costa?» dicono le labbra di mamma. Sbuffo, ma mi alzo lo stesso.

Apro lo scolapiatti e intanto, con la coda dell’occhio, controllo la pentola a pressione sul fuoco. Se un giorno dovessi beccare un discendente di quella bestia di Satana che ha inventato la pentola a pressione, giuro, gli disseminerei la casa di trombe da stadio e le farei suonare tutte insieme, di notte, così da fargli prendere uno di quei colpi che noi poveri disgraziati dalla tachicardia facile ci dobbiamo sorbire ogni volta che quell’aggeggio infernale è in funzione nelle nostre cucine.

Nello scolapiatti la moka non c’è: mi guardo intorno e la trovo nel lavello, accanto alle tazzine sporche del pranzo.

Svito le due parti della caffettiera e sbatto il filtro contro il cestino dell’umido per farci cadere dentro il fondo del caffè. Alzo gli occhi al cielo mentre la poltiglia scura non accenna a muoversi di un millimetro – figuriamoci – e soffio direttamente nel filtro, raggiungendo il mio scopo.

«Non eri tu che dicevi che il fondo del caffè si deve sempre buttare nel lavandino, papà?»

Sento il nonno rispondere alle mie spalle: «Io? Ma va.»

«È vero, ce lo dicevi quando eravamo piccoli.»

«Mille anni fa» commento a bassa voce.

«Ve lo siete sognati, il caffè intasa i tubi.»

«Ma se lo facevi sempre, Federì.»

«Ma quando mai?»

Mi faccio scappare una risata. La memoria a lungo termine ha saltato tutte le generazioni, nella nostra famiglia.

«Ma ti dico di sì! L’hai detto pure a Emanuele, anche lui lo fa sempre.»

Il sorriso sparisce dalle mie labbra, veloce com’è arrivato. Finisco di sciacquare la moka e metto la parte inferiore sotto il rubinetto.

«Quello stronzo.»

Faccio scorrere l’acqua fredda nella base finché non arriva a coprire la valvola.

«Dove sta adesso?»

«A Roma, dalla sua nuova famiglia, dove vuoi che sia.»

Riempio il filtro col caffè macinato, un cucchiaino dopo l’altro, facendo attenzione a non farlo fuoriuscire.

«Tutti uguali gli uomini. Quante volte l’abbiamo già vista ‘sta storia? Io per prima.»

«Certo che bisogna essere proprio delle persone di merda.»

Pulisco i bordi con cautela, per non pressare la polvere.

«Sì, come si fa a lasciare in questo modo i propri figli?»

Silenzio.

Così, di colpo, come quando finisce un concerto, o esci da una discoteca, e ti senti le orecchie tappate, come se fossi sott’acqua, e passi i successivi venti minuti a sbadigliare a forza per cercare di stappartele.

Tolgo un piccolo residuo di caffè dalla guarnizione di gomma, sentendo gli sguardi di tutti contro la mia schiena.

Avvito le due parti della caffettiera e stringo forte. Parecchio forte. Sarà divertente provare a svitarla, dopo.

Poi mi avvicino ai fornelli e metto la moka sul più piccolo, accendo il gas e lo lascio a fuoco medio-basso.

Mi giro verso la mia famiglia e loro sono lì che mi guardano, mi guardano, mi guardano.

«Che volete? Il caffè non è ancora pronto» sbotto.

Si sbloccano, tutti insieme, e riprendono a chiacchierare di tubature e soluzioni casalinghe, parlandosi sopra l’uno con l’altro, e tutto quello che sento sono frasi impazzite che non hanno senso, un verbo preceduto dal soggetto sbagliato, un’avversativa introdotta da una congiunzione coordinante.

Li osservo, immobile.

La pentola a pressione fischia, forte e assordante, e il mio cuore perde un battito per lo spavento. Trombette da stadio nella notte, bestia di Satana, te le meriti proprio.

I miei parenti la ignorano senza battere ciglio e alzano la voce per sovrastare il rumore. Non ho neanche la voglia di stare a leggere le parole sulle loro bocche.

La pentola fischia, fischia, fischia ancora.

Provo un’invidia bestiale e mi mordo una guancia, spingendo i miei fondi di caffè in gola.

 

Un racconto di Fabiola De Santis 

Illustrazione di Maria Caruso

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