Zombie

“Porca troia!”

Roberto abbassa lo sguardo. Si è pisciato sulla scarpa.

Il ponte della statale rimbomba al passaggio delle auto. Tra graffiti sbiaditi e numeri di telefono scritti con l’indelebile accanto a promesse di pompini, il pilone ospita una nuova opera d’arte liquida e gialla. La mostra è temporanea, esclusiva: il pezzo rimarrà esposto sino al prossimo sole, quando si dissolverà. Avanguardia pura. Arte smaller than life.

Roberto non aveva mai avuto l’abitudine di fermarsi per strada per pisciare, ma tenerla è dura e pare anche che faccia male. Due passi nel fango e torna in macchina. È di nuovo a secco.

 

È sempre bello tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro. Dura si fa per dire, ovviamente. Quando trascorri più tempo in viaggio per andare in ufficio che al computer devi fare molta attenzione a lamentarti: c’è sempre qualcuno che lavora in fabbrica, ha delle persone sotto la sua responsabilità, salva il mondo un task alla volta.

A parte gli scherzi, non è male, davvero. I colleghi sono simpatici, la struttura è avveniristica, l’ambiente è dinamico e coinvolgente. E poi con lo stipendio puoi ordinare al ristorante senza perderti tutte le volte nel calcolo a mente del rapporto quantità/prezzo.

Poi non devi più pensare a nulla quando arrivi a casa. Sei libero di fare ciò che vuoi, purché sia rilassante. Roberto sale le scale. Le travi di legno della mansarda urlano sotto i colpi della pioggia battente che infuria da circa sedici, diciassette giorni consecutivi. Giubbotto sull’attaccapanni, scarpe infangate fuori sul balcone, si lascia cadere sul letto.

La libreria è nettamente la parte più ordinata della sua stanza: romanzi e fumetti accuratamente divisi per autore e cronologia d’acquisto si dividono l’ormai poco spazio ancora disponibile. Sgomitano per mantenere il proprio posto, come le persone. Roberto sente scrocchiare il collo mentre si volta alla ricerca dei due volumi nuovi che deve iniziare. Non ha ancora scelto, ma per mantenere la sua media di almeno dodici letture l’anno deve sbrigarsi.

 

La finestra gli spara il sole in faccia e lo aiuta a svegliarsi. Sono quasi le venti e quindici: mancano tre quarti d’ora alla partita di calcetto. Roberto corre a prendere il borsone. In due minuti è pronto: alzarsi il più tardi possibile nonostante la lunghezza del tragitto da fare tutte le mattine è un esercizio infallibile per la velocità e l’efficienza.

Infila il giubbotto e fa per andar via di corsa, ma sente un fruscio improvviso sopra la testa: il manifesto ingiallito di uno spettacolo teatrale dei tempi del liceo sventola per un attimo, rigido. È passato un secolo, ma Roberto si ricorda bene di averlo appeso lì in alto per non doversi sempre abbassare.  Sarò cresciuto ancora, pensa ridacchiando mentre stacca il foglio e lo chiude in un cassetto.

 

Lo scrosciare della doccia copre le chiacchiere. La partita è andata bene.

Roberto chiude il rubinetto. Gli altri guardano il cellulare. Si veste in silenzio, lascia i soldi sulla panca dello spogliatoio, si carica il borsone sulle spalle e se ne va. Niente panino tutti insieme nemmeno stavolta, ma meglio così: domani sveglia alle sette.

 

La sveglia non ha pietà. Roberto si alza di soprassalto e sbatte la testa contro lo spigolo della trave di sostegno della mansarda. Non gli era mai successo prima, ma non ha tempo di preoccuparsene: spazzolino, pantaloni, scarpe e dieci minuti più tardi è già sulla strada per l’ufficio. Un cerotto in bella vista sulla fronte.

 

Pausa pranzo. Vaschetta di prosciutto con i cracker. Roberto avrebbe dovuto scrivere la recensione di una serie tv tre settimane fa, solo che per parlare delle cose bisogna prima guardarle. Nella mail chiede scusa, non succederà più.

 

 

Ma che cazzo.

Sono le dieci?

La sveglia non è suonata?

Corri.

Roberto afferra lo zaino. Mette dentro il computer, il caricabatterie e il libro.

Non c’è tempo.

Corre giù. Lancia nel lavandino le posate sporche del giorno prima. Prende il pranzo

Torna su. I piedi nudi rimbombano sul marmo delle scale.

Freddo. Bagnato.

Piove a dirotto. Le finestre sono aperte. Il pavimento è fradicio, il letto zuppo.

Non c’è tempo.

Va e torna dal bagno. Lancia per terra gli accappatoi. Chiude fuori il temporale. Si veste.

Le undici.

Afferra lo zaino. Il computer è attaccato alla presa, per terra. Il libro sul comodino.

Non può essere.

Non c’è tempo.

Mette dentro il computer, il caricabatteria e il libro. Le posate sporche del giorno prima sono ancora lì.

Corre giù. Lancia le posate nel lavandino. Prende il pranzo dal frigo.

Apre la porta di casa.

Ha dimenticato le chiavi della macchina.

Le undici e mezza.

Torna su. I piedi nudi rimbombano sul marmo delle scale.

Freddo. Bagnato.

Piove a dirotto. Le finestre sono aperte.

 

Roberto si sveglia. Il letto è zuppo di sudore. È ancora presto: tutti i giorni si sveglia un’ora prima del suono del cellulare, incubi o meno. Come di consueto, si volta per verificare. O meglio vorrebbe voltarsi.

Il soffitto della mansarda incombe su di lui, a pochi centimetri dalla fronte. Due travi sporgenti gli bloccano le braccia. Non può muovere nulla a eccezione del collo. Il cellulare è sul comodino, ma non riesce a raggiungerlo. Roberto si dimena, tende i muscoli. Tenta disperatamente di riprendere il controllo sul suo corpo. Digrigna i denti. Stridono.

Le vene pulsano. I capillari si spaccano. Il legno appuntito apre gli avambracci.

Rivoli di sangue rigano la pelle. Inzuppano il lenzuolo. Si mischiano con il sudore.

Lo sforzo lo copre di macchie scure.

Tra qualche minuto suonerà la sveglia del cellulare e non ci sarà nessuno a farla smettere.

È un incubo.

È l’incubo di prima.

Non sono ancora sveglio.

Ma ora basta.

Apri gli occhi.

Aprili!

La sveglia del cellulare inizia a suonare.

Roberto sferra una testata al legno. Un’altra. Ancora una.

Il sangue gli riempie gli occhi. Nessun incubo provoca questo dolore.

Forse quella è una crepa.

Il suono della sveglia si affievolisce. Ancora qualche colpo e sarà fuori.

Non ti fermare.

Non ti fermare.

La luce del sole entra nella fessura tra le travi. Roberto emerge dalle macerie.

È una maschera di sangue. Si regge in piedi a malapena.

Si guarda intorno. Cemento, prato e lapidi.

Le lacrime colano insieme al sangue e al sudore, nel fango.

Sottoterra il cellulare continua a gridare.

È tardi.

 

Tutto come sempre.

Roberto spalanca la porta dell’ufficio e saluta il suo collega Franco, che scappa trafelato nel ripostiglio.

“Perché sei così sconvolto? Hai visto un fantasma?”

Roberto sta ancora ridendo quando sente qualcosa scoppiargli nel cervello. È solo un attimo di dolore abbagliante, di sorpresa luminosa, poi più niente.

Franco è in ginocchio.

La pistola cade con un tonfo metallico.

Ci vorrà un bel po’ per togliere tutto quel sangue dalle piastrelle.

 

Un racconto di Marco Broggini

Illustrazione di Ilaria Bressan

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