La foresta degli urushi

Era sera, dopo cena. Yune sedeva al tavolo basso con la schiena ricurva, amalgamando la lacca in una ciotola. Le guance riflettevano la luce della lampada, gli occhi scintillavano come nere mezzelune.

«Mi piacerebbe vedere i ciliegi in fiore» dissi lavando i piatti.

«È tardi per la fioritura di questʼanno e presto per la prossima. — replicò Se vuoi, domani puoi venire a vedere gli urushi.»

Ciliegi e urushi sono simili quanto riso e spaghetti. Storsi la bocca ma ne nacque subito un sorriso: era la prima volta che accennava a portarmi con sé.

 

Anni prima un terremoto aveva danneggiato la raffineria del mio paese costellando il cielo dellʼinfanzia di particelle cancerogene. Per allontanarmi dal disastro mamma si rivolse a lui, suo fratello. Quella convivenza fu vincolata sin da principio.

Mio zio Yune era aspro di carattere e cagionevole di salute. Si sottoponeva a visite periodiche delle quali non rivelava mai le diagnosi. Ogni giorno avvertiva dolori, disfunzioni, disturbi. Il costante malessere gli rovinava lʼumore e scandiva il tempo tra pasticche, tisane e decotti; allergeni, inibitori, enzimi; esami, analisi e terapie. Mamma desiderava gli fossi riconoscente ma non riuscivo ad avvicinarmi senza infastidirlo. Mi impegnai a capire quando avrei potuto parlare, quando avrei dovuto restare in silenzio e quando avrebbe voluto che lo lasciassi solo. Vissi accanto a lui eseguendo i passi di una danza fatta di pura tecnica, concentrata a non pestargli i piedi tra camere e corridoi.

I grandi occhi di sua moglie ci fissavano dal portafoto in soggiorno. La cornice era opera di Yune, che modellava la ceramica per mestiere, plasmando oggetti nuovi di giorno e riparando quelli rotti di sera. Anche lui, per me, era come un manufatto in frantumi: da qualunque parte lo approcciassi rischiavo di farmi male. Appariva sereno soltanto quando lavorava con ciotole, pennelli, lacca e una fiala colma dʼoro. Lunga e stretta, immaginavo contenesse una polvere magica. Una volta ne rubai una manciata, la portai a scuola e la sparsi sul banco. Lui lo scoprì e dopo avermi rimproverato spiegò:

«Lʼoro va a ricoprire la lacca di urushi che incolla i frammenti.»

«Perché non ci fai dei gioielli?»

«Il mio compito è aggiustare. Questo, però, non vuol dire cancellare le crepe o peggio, nasconderle. Riparare è donare una seconda vita senza negare la prima.»

Negli anni ho visto i pezzi di mille vasi saldarsi tra le mani di Yune; ogni volta ho sperato che anche il suo spirito, un giorno, si sarebbe potuto aggiustare.

 

Entrammo nella foresta allʼalba camminando sulla terra scura e morbida. Ci fermammo presso uno spiazzo delimitato da un arco di alberi, circondato a sua volta da decine di arbusti disposti in maniera casuale. Mi sentivo una formica su un puntaspilli. I tronchi degli urushi sono tanto stretti quanto alti: si possono racchiudere tra i pollici e gli indici delle mani ma superano i dieci metri dʼaltezza. Yune si diresse verso un albero, lʼunico segnalato da un nastro rosso annodato intorno al tronco; ne incise la corteccia con uno scalpello e scavò linee orizzontali da cui stillò la resina.

Dicono che la contemplazione dei ciliegi ispiri riflessioni sulla caducità della vita e la rinascita. Osservando le alte chiome degli urushi – quelle foglie, quei bordi irregolari affilati dai raggi di un sole freddo – mi germogliarono dentro una miriade di microscopici turbamenti. Si trattava di paure infondate come la sensazione che non saremmo mai tornati a casa o che sarei potuta morire lì, in mezzo agli alberi. Il cuore palpitava senza un motivo concreto e il respiro si bloccava a metà. I pensieri prendevano forma da soli ed erano fatti della stessa sostanza collosa della rugiada. Strinsi le ginocchia al petto: stavo tremando di panico.

 

Quella sera andai a letto prima di Yune. Dormii poco e male, sognandomi seduta a terra nella foresta. Accerchiata dagli urushi, stringevo il nastro rosso tra le mani.

Il mattino seguente trovai mio zio steso sul tatami, inerte, e accanto a lui la resina diventata lacca. Il suo spirito doveva essere volato via attraverso una delle crepe che non aveva sigillato… Pensai fosse giusto che lo facessi io, quindi impugnai un pennello.

In ginocchio accanto al corpo, ne studiai la geografia del volto: la fossetta sul mento, le rughe ai lati della bocca, lʼincavo degli zigomi, lʼorizzonte tra occhiaie e guance, la rotondità delle palpebre, due linee verticali tra le sopracciglia.

Guidai le setole asciutte sui lineamenti: la fossetta sul mento, le rughe ai lati della bocca, lʼincavo degli zigomi, lʼorizzonte tra occhiaie e guance, la rotondità delle palpebre, due linee verticali tra le sopracciglia.

Intinsi il pennello nella lacca e ripetei il percorso: la fossetta sul mento, le rughe ai lati della bocca, lʼincavo degli zigomi, lʼorizzonte tra occhiaie e guance, la rotondità delle palpebre, due linee verticali tra le sopracciglia.

Marcato di nero, il viso di Yune somigliava a una maschera del teatro Nō. Non ricordando preghiere mormorai un passo che sapevo a memoria.

 

A est, alta novanta metri…

… fu costruita una montagna in argento e un sole dorato le fu posato sopra.

 

Aprii la fiala, la inclinai e sparsi oro sulla lacca.

 

A ovest, alta novanta metri…

… fu costruita una montagna in oro e una bianca luna dʼargento le fu posata sopra.

 

Fu lʼultima volta che rubai la polvere a Yune. Stavolta, ne ero certa, non si sarebbe arrabbiato.

 

Un racconto di Ilaria Petrarca

Illustrazione di Marco Pellino

Lascia un commento