La donna e il fuso

a mia madre

 

Credetemi, questa è successa per davvero. Così me la raccontava mia madre quand’ero piccolo, così a mia madre la raccontava mia nonna, e così a mia nonna la raccontava la mia bisnonna, la quale – siamo nella seconda metà dell’ottocento – fu appunto fra i testimoni di una vicenda che nel tempo, a forza d’essere bisbigliata, origliata vociferata e ridacchiata, è diventata una leggenda di paese o roba del genere, nonché la novella che vi apprestate a leggere. Era una sera d’autunno di tanti e tanti anni fa, quando ancora non esistevano l’elettricità, il sistema idrico e il metano, presso il villaggio di San Quirico di Vernio, poche casupole in pietra ammucchiate addosso a un fiumiciattolo, nell’Appennino tosco-emiliano. Al solito, anche quella sera uno sparuto gruppo d’amici si era riunito attorno a un camino e a una fiaschetta di vino, tanto per passare in allegria le ultime ore della giornata. A quei tempi ci si accontentava del poco che c’era per riposare i nervi dalla fatica del lavoro, e quel poco consisteva appunto in qualche bicchiere e nel raccontarsi storielle in compagnia. Bevi e bevi, senza nemmeno accorgersene la combriccola si ritrovò a tirar fuori storie di paura d’ogni tipo: assassini, fantasmi, animali parlanti, morti che escono dalle tombe, streghe, stregoni e via di seguito; insomma, le storie più belle. D’un tratto, nel mentre erano lì che si raccontavano di un fantasma avvistato a passeggio lungo la cinta del cimitero di San Quirico, una di loro (una donna sulla trentina, se non ricordo male) proruppe esclamando: “Balle!” e arricciò il naso, sprezzante. “Alla vostra età, ancora a ricamare su queste sciocchezze?” E gli altri, in coro: “Perché, tu non ci credi a questa storia?” “No e poi no! Sono solo novelle, queste!” ribatté la donna, fiera della propria spavalderia. Al che la mia bisnonna – che quella lì in realtà non l’aveva mai potuta soffrire, tanto era vanitosa e piena di sé (in fondo zappavano lo stesso fazzoletto di terra, spalla a spalla: perché darsi tutte quelle arie?) – al che la mia bisnonna, dicevo, incalzò la donna sbuffando, a mo’ di sfida: “Va’ là! Sono sicura che tu alle novelle ci credi eccome, e che alla fine ti mettono addosso le stesse paure che a noialtri!” E quella, altezzosa: “Ah no, cari miei. Io non ci credo a fantasmi, mostri e compagnia bella, e soprattutto, quant’è vero Iddio, non mi fanno nemmeno un briciolo di paura. Ve lo voglio dimostrare. Domani notte (che la luna sarà nera e farà buio-pesto) andrò al cimitero di San Quirico a piantare un fuso nel bel mezzo di una tomba, di quelle che stanno in vetta alla scalinata, vicino alla cappella.” “Eh, non ci crediamo!” strabiliò la combriccola nell’udire quelle parole. “Così sarà,” tagliò corto la vanitosa. “Voialtri mi aspetterete giù al cancello d’ingresso, almeno vedrete da voi stessi che a me il coraggio non manca di certo.” E fu così che la notte seguente, intorno alla mezza, il gruppetto si radunò davanti al cancello del camposanto. Nessuno osava fiatare. Il buio era perfetto. La donna stringeva nella destra un grosso fuso di legno. Guardava dritta davanti a sé, in faccia la solita spocchia. Vestiva uno scialle di lana bello pesante e una lunga sottana a balze, alla moda dell’epoca. Quindi scostò la sottana poco sopra le caviglie, il tanto che bastava per preparare i passi alla salita, e s’avviò. Il cimitero di San Quirico è situato sul fianco di una collinetta, alla maniera dei teatri greci, e per raggiungere l’estremità opposta all’ingresso c’è da fare una cinquantina di scalini che salgono ripidi fino ad arrivare difronte a una piccola cappella. Ai lati della scalinata, di qua e di là, le tombe dei sanquirichesi. Raggiungere la vetta non dovette essere semplice, i lumini si erano spenti tutti per via della guazza. Gli unici riferimenti per potersi orientare erano le sagome dei cipressi che giganteggiavano nel buio, ombre ancor più nere della notte stessa. Percorsa la salita, la donna andò tastoni difronte a una lapide che stava alla sinistra della cappella. Si chinò piegando le gambe da un lato, lentamente, i lembi della sottana le si afflosciarono languidi sulla ghiaia. Quindi spinse il fuso nella terra, più forte che poteva: “Ce l’ho fatta,” avrà pensato. Poi però, come fece per alzarsi, si sentì strattonata per la sottana con tanta violenza che cadde dritta dritta sulle ginocchia. Spaventata, riprovò daccapo ad andarsene, questa volta mettendoci più foga, ma finì di nuovo col rovinare bocconi. Chissà cosa non le passò per la testa in quegli istanti di terrore? “Aiuto! Aiuto! I morti mi tirano giù! I morti mi tirano giù!” cominciò a gridare nel mentre tentava di divincolarsi da quella stretta ignota che le stava aggrappata ai lembi della sottana. A quel punto gli amici le corsero incontro per soccorrerla, a perdifiato. Trovarono l’amica accovacciata sulle ginocchia che pareva come in preghiera, la fronte appoggiata sulla lapide. Purtroppo non c’era già più niente da fare: la donna era morta di crepacuore. Come gli amici fecero per rimetterla in piedi, ci misero un attimo per capire cos’era successo. Nel piantare il fuso, la poveretta s’era inchiodata la sottana alla tomba. Dalla paura, aveva scambiato il fuso per chissà quale minaccia dall’aldilà. Ah, ironia della sorte! Fu subito chiaro a tutti il suo destino. Proprio lei, che tanto si vantava di non crederci, di lì a poco sarebbe diventata una novella. Le esequie furono celebrate in fretta e furia (i familiari si vergognavano di una morte tanto ridicola). Sulla lapide, nessun nome e nessuna data. Dalla pietra-serena sfolgoravano soltanto il volto di una donna austera ritratta in bianco e nero e un epitaffio in caratteri dorati che recitava:

 

INCHIODATA DAL FATO

QUI GIACE LA VANITÀ.

Un racconto di Grego Meier

                     Illustrazione di Maria Sciannimanico

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