Betsubara

Il piccolo Kenta sgusciò dal ventre materno lamentando un appetito bestiale. Strinse le gengive intorno al seno di Momoko con tanta foga da schiacciare il capezzolo. Non era una fame qualsiasi, la sua; si trattava di una voracità diversa e composta, come il bisogno di qualche cosa che non sarebbe arrivata. Crebbe in campagna, divorando latte caprino, riso, scodelle di ramen: nessuna pietanza spegneva l’inquieto brontolio delle sue viscere. Kenta disperava, digiuno nell’ingordigia, e Momoko intuì presto perché. «Hai un buco nello stomaco», raccontò, «grosso come una noce. Si chiama betsubara. È uno spazio fatto apposta per un dolce speciale: esaudisci quel capriccio e smetterai di soffrire».

Compiuti diciott’anni, Kenta si trasferì a Tokyo. Frequentava l’università per non pensare al cibo. Si laureò in anticipo rispetto ai compagni riportando il massimo dei voti, tanto che, poche settimane più tardi, fu assunto come tecnico del suono dalla nota etichetta discografica Nippon Columbia Company Limited.

Quando indossò il primo paio di cuffie, l’appetito si spense.

Udiva ogni singola vibrazione di voce – tremori di carne, così dolci, così vivi, che davano a Kenta l’impressione di stringere un fascio di corde vocali, un mazzo di fili elettrici crepitanti di corrente. E furono quel sapido sfrigolio, quella succulenta alternanza di bassi e di acuti a sopire la sua bramosia: era sazio, finalmente. Era felice.

Kenta ascoltava la stessa voce per una settimana, poi ne voleva di fresche: il betsubara reclamava nuovi dolci. Prediligeva le tonalità femminili, che liberavano vibrazioni deliziose. Le tracce della Nippon Columbia, però, non garantivano un ricambio settimanale, e così Kenta pativa la fame. Momoko stentò a riconoscerlo quando si trascinò da lei per chiedere aiuto: era ridotto pelle e ossa. Raccontò delle voci, piangendo; rifiutò il cibo per giorni.

«Non piangere», disse Momoko una mattina d’inverno, osservando il cielo: s’intravedeva ancora qualche lembo d’azzurro dietro ai tetti, come strascichi di primavera sopravvissuti alla neve. «Arriverà la donna per te, e allora sette giorni sembreranno una sciocchezza in confronto all’eternità».

Kenta tornò a Tokyo, frastornato. Il pane era insipido, il sole freddo, la musica dura e meschina. Detestava le voci, meditò di tagliarsi le orecchie finché non la incontrò. Nuova leva della Nippon Columbia, Ayumi Hamasaki possedeva vibrazioni vocali irresistibili; eppure, fu scaricata per l’insuccesso del primo disco. Kenta non accettò quella decisione: sarebbe morto senza di lei. Provò a spiegare ai superiori che avevano commesso un grosso, grossissimo errore, ma non sentirono ragioni. Che vuoi capirne di musica, dicevano, sei solo un tecnico del suono, Ayumi è insulsa, la sua voce non vale un centesimo. Kenta non si arrese: avrebbe fatto a modo suo.

Rapire Ayumi fu semplice.

Kenta trovò l’indirizzo sul contratto discografico e le inviò una lettera su carta intestata della Nippon Columbia.

Ayumi varcò la soglia del suo monolocale pochi giorni dopo.

Si fermò al centro del salotto: il pavimento era ingombro di apparecchiature sonore. Ovunque girasse lo sguardo, Ayumi scorgeva teste di microfoni, cavi elettrici, nastri divelti dalle cassette come filamenti di una trama velenosa; un paio di manette scintillava sopra un divano.

«Lei è il signor… Kenta Kobayashi, giusto?»

Kenta annuì, avanzando a passo lento verso il divano.

«Molto piacere. Allora, dove andiamo a registrare?»

«Qui. Canta.»

«Lavoreremo qui?»

«Sì.»

«Non sarebbe meglio uno studio insonorizzato? Le tracce che presenteremo alla Nippon Columbia devono essere impeccabili. Non posso permettermi di sbagliare ancora».

Kenta fece segno di no con il dito indice. Ayumi aggrottò la fronte.

«Mi scusi, ma non capisco proprio come…»

«In questo appartamento c’è un’acustica perfetta».

Kenta prese posto sul divano, davanti a lei, accovacciato in un groviglio di nastri – uno squallido nido di ragno.

«Avanti, canta», incalzò.

Ayumi aprì la bocca, perplessa, intonando un brano a cappella. Kenta trasalì. Udiva le corde vocali vibrare, tenere, cristalline, pur senza filtrarle attraverso le cuffie.

«Cos’è quella faccia?», sbottò lei.

«La tua voce», disse Kenta. «È come… un dolce speciale».

Afferrò le manette. Si alzò dal divano, tornò a sedere; portò le mani ai capelli, strinse le ciocche nei pugni. Chiuse gli occhi: i pensieri si facevano arrendevoli, meno ingombranti. Poggiò la fronte sulle le ginocchia, ansante. Le manette penzolavano verso il pavimento. Ayumi impallidì.

«Devo andare. È tardi».

«Canta per me».

«Non…»

«Solo un po’. Per favore».

Ayumi acconsentì: non aveva scelta. Emise qualche vocalizzo, ma le note si bagnavano di lacrime. Kenta sollevò il capo: il suo sguardo era un pozzo secco.

«Canta».

«Non farmi del male».

Kenta scattò in piedi. Ayumi corse via, ma lui le fu addosso in un istante. L’ammanettò alle inferriate della porta, prese una cassetta e avvolse il nastro intorno al suo corpo, dalle gambe alla testa, con la lentezza metodica del ragno che avvolge la preda nella tela. S’inginocchiò accanto a lei.

«Canta».

Ayumi singhiozzava.

«Che vuoi farmi», sussurrò.

«Tenerti con me. E ascoltare la tua voce», disse lui. «Oggi, domani. Per sempre».

Kenta intrecciò le dita e tacque; guardava in basso, compassato, silenzioso. Pareva un monaco in preghiera.

«Lasciami andare. Ti scongiuro», disse Ayumi.

«Non posso».

«Perché?»

Kenta esitò.

«Ho fame», disse.

«E io… Come credi che…»

«Canta».

«No».

«Canta: non ti chiedo altro».

«Perché mi fai questo?», gorgogliò lei. Il nastro magnetico le tagliava la lingua, sporcando la bocca con il sapore ferroso del sangue.

Kenta sorrise.

«Betsubara», mormorò. «Ho ancora spazio nello stomaco per te».

 

Un racconto di Claudia Grande

Illustrazione di Alessia Arti

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