La maledizione dell’alchimista

Quando la porta si aprì, faticai a riconoscere la figura umana che arretrava nascosta dietro il legno pesante. Mostrava di sé solo due occhi vecchi e giallognoli e dita così sottili che a guardarle sembrava di sentirle scricchiolare. Chiuse la porta alle mie spalle e mi venne davanti senza far rumore, contrastando con il suo pallore l’oscurità che aveva intorno: pareva non avesse mai visto la luce del sole.

Sbuffai, non avevo mai compreso chi si faceva portar via così la vita dalla fede.

“Benvenuto, fratello. Io sono fra’ Gaudenzio”, si presentò con un inchino. Aveva una voce piccola e appuntita, che s‘infilava in ogni angolo della chiesa fino quasi a rimbombare nonostante fosse poco più di un sussurro.

Mentre fra’ Gaudenzio m’accompagnava nella mia stanza, fuori dalle finestre nuvole scure coprivano gli astri, trasformando quel corridoio in una macchia di nulla; camminavamo guidati solo da una lampada a olio che illuminava al frate la strada e a me solo la sua schiena.

Sentii il clangore di una chiave che gira e poi il cigolio di una porta che si apre: fra’ Gaudenzio appoggiò la lampada sul tavolino spoglio e mi mostrò il resto della celletta, un letto polveroso e una cassettiera a cui mancava un piede.

“Purtroppo le nostre stanze non sono più accoglienti come un tempo. E da qui sono andati via tutti negli ultimi anni, in un modo o nell’altro”.

Forzai un sorriso per mostrare di aver capito. Fra’ Gaudenzio mi prese la borsa dalle mani e la appoggiò con cura sul letto, poi mi tirò per il braccio: “Vieni con me, dobbiamo andare a toglierlo. Non c’era più nessuno che potesse aiutarmi e da solo non riuscivo. È lì che penzola da dieci giorni, ormai”. Dopo essersi fatto il segno della croce, riprese il corridoio.

Il cadavere di fra’ Antonio aveva gli occhi mangiati dagli uccelli, un segno rosso intorno al collo e la pelle che cominciava a marcire; l’odore della morte si mischiava a quello dell’umidità della pioggia e degli escrementi dei volatili. Lo chiudemmo nella cassa di legno e lo seppellimmo nel giardino sul retro della chiesa senza benedizione, perché ai suicidi, dicono, è chiusa la porta per il Paradiso. Vidi fra’ Gaudenzio girarsi tra le labbra una preghiera frettolosa mentre si asciugava una lacrima: la maledizione ne aveva colpiti tanti e altrettanti lui ne aveva visti morire così, in preda alla follia che li spingeva ad impiccarsi al ponte, l’arco che collegava le guglie della chiesa. Ne erano rimaste solo due, raccontò ripetendomi la leggenda, perché le altre erano crollate nel terremoto che aveva accompagnato il rogo dell’Alchimista, il frate eretico di cui la comunità si era sbarazzato un secolo prima. Ora quelle due punte nere si ergevano come corna del demonio, aveva sussurrato.

Tornato in camera, tolsi il saio scomodo con cui ero costretto a travestirmi e appuntai sul quaderno ciò che avevo visto e che speravo mi aiutasse a smascherare chi si nascondeva in realtà dietro a quella presunta maledizione. La mia ricerca era cominciata, avrei dimostrato al paese intero che era solo superstizione.

Il giorno dopo mi dolevano ancora le braccia per aver sollevato ciò che restava di fra’ Antonio: svolsi le mansioni che fra’ Gaudenzio mi aveva affidato in poco più di due ore, fedeli non se ne vedevano da quelle parti, anche i più curiosi erano spaventati dalla fama che circondava la chiesa e le messe di fra’ Gaudenzio erano in realtà nient’altro che preghiere private. Approfittai del lieve squarcio di sole che metteva momentaneamente a riposo la pioggia per salire sul ponte e studiare bene come fosse fatto. Il marmo era ancora scivoloso per l’umidità e dovevo camminare tenendomi alla balaustra, sospeso nel mezzo della campagna, con il lago lontano e le montagne alle spalle, coperte da un perenne velo di foschia. A fare la guardia al passaggio da una guglia all’altra c’erano quattro figure, due per parte, mezzi uomini e mezzi uccelli, neri e minacciosi come le nubi che stavano per tornare. La leggenda voleva che non si dovesse guardarli negli occhi, era così che l’Alchimista prendeva possesso dell’anima dei frati, ma io da uomo di scienza sfidai la fede: risi constatando che il brillio infernale dei loro occhi era spento, erano solo due cerchi di pietra scura.

Diedi loro le spalle e mi sporsi per guardare verso il cimitero sul retro: tra tante lapidi, tutte uguali, c’era anche quella di fra’ Bernardo, trovato appeso a quelle pietre su cui ora appoggiavo le mani poco più di un anno prima. Mio fratello.

Tornai alla mia finzione con fra’ Gaudenzio ancora più deciso a smascherare la sua, mentre si alzava un vento freddo da temporale che mi fece rabbrividire le schiena.

Il corpo penzolante di fra’ Antonio si era impossessato dei miei sogni, mi svegliavo urlando con la visione del suo volto mangiucchiato e decomposto, che più si avvicinava più diventava quello di Bernardo, con la bocca spalancata a invocare aiuto. Una mattina fra’ Gaudenzio entrò nella mia celletta spaventato dalle grida: gli raccontai dell’incubo ricorrente. Si fece il segno della croce tre volte borbottando in latino e si allontanò da me camminando all’indietro e baciando più volte il rosario. Sbatté la porta e sentii i suoi piedi allontanarsi di corsa.

Mi ritrovai a vagare nella chiesa buia, cambiando panca come se fossero una più scomoda dell’altra. Sentivo la presenza di fra’ Gaudenzio che sbirciava nella sala e poi fuggiva via di nuovo, forse impaurito dalla mia presenza.

Uscii con il cappuccio calato sulla testa a difesa dal vento gelido, mi allontanai dal portone abbastanza da poterle vedere dal basso: le guglie. La sera in cui ero arrivato nel buio non avevo distinto la somiglianza, ma ora potevo riconoscerle, le corna del diavolo. Presi il quaderno dalla tasca e riprodussi la sagoma della chiesa, soffermandomi sui dettagli di quelle punte scure e del ponte che le collegava, e senza rendermene conto aggiunsi una corda e un cadavere che oscillava. Il rimbombo di un tuono mi distolse dal disegno, sentii le dita scottare come arse dal fuoco.

Poi sentii bruciare anche gli occhi. Le fiammelle delle candele della chiesa mi baluginavano davanti nonostante il temporale, le vedevo anche con gli occhi chiusi, anche se li strofinavo per toglierle. La pioggia m’inzuppava l’abito e l’odore di terra bagnata risvegliò nella mia mente l’immagine del volto di fra’ Antonio, confuso con quello di mio fratello, riproponendomela in qualunque direzione mi girassi come un incubo nella veglia. Corsi, corsi e corsi ancora, mentre una voce si faceva strada nella mia testa incitandomi a salire sul ponte, tra le corna del diavolo. Crebbe fino a urlare più forte di me. Stracciai le pagine del mio quaderno piene di dati razionali e scientifici, ipotesi di avvelenamento, di omicidio o fattori ambientali che avevano spinto diciassette frati a impiccarsi nello stesso posto e li calpestai impiastricciandoli in una pozzanghera.

Nella corsa andai a sbattere contro una lapide nascosta dall’erba: sulla cima aveva una crepa, come se fosse stata agitata da una forte scossa del terreno. La scritta sembrava vergata da un artiglio.

Fra’ Gaudenzio

Che le fiamme del suo rogo rendano folle chiunque si avvicini

Illustrazione di Marco de Simone

Sissi Decorato

Sissi nasce, cresce e si laurea a Milano. Poi cambia idea e si trasferisce a Torino. Ama fare piani per il suo futuro e farli saltare; parlare di Dickens e leggere Sophie Kinsella di nascosto; i vestiti eleganti, ma solo se abbinati a scarpe eccentriche.

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