Vecchi amici

Il pub è pieno di gente, anche se la partita deve ancora iniziare.

Giacomo è seduto al tavolo, su uno sgabello di legno. Gli fa male la schiena.

Assurdo.

Non molti anni fa avrebbe potuto aspettare Umberto allo scivolo della piazzetta in mezzo ai palazzi. Gli sarebbe bastato dirgli “Ci vediamo al solito posto” e avrebbero passato l’ennesima serata a riprendersi con il cellulare mentre ballavano Tecktonik con quindici gradi sotto zero. Video sgranati in 3gp che sarebbero poi finiti su Youtube, ricevendo massimo cento visualizzazioni. Oggi Jack non ricorda nemmeno la password dell’account. Non che gli interessi andare a controllare se nel frattempo sono aumentate, per carità.

La bottiglia di Tennent’s è già mezza vuota. Si diventa grandi anche attraverso le birre: si inizia con la Corona, che non a caso ha la bottiglia trasparente; e si finisce con la Moretti marrone fango. In mezzo, perfetta per i venticinque anni, c’è la Tennent’s, che se guardi il mondo attraverso il suo vetro lo vedi un po’ verde, come qualcosa che inizia ad ammuffire. E tu con lui.

Per fortuna la porta del pub si apre e sulla soglia appare Umberto, che si siede subito all’altro lato del tavolo.

“Cazzo, Pumba! Allora eri proprio tu al telefono!”

“Chi pensavi che fosse?”

“Che ne so. Da quando ti sei messo con quella cicciona non ti sei più fatto sentire. Sembravi morto.”

“Sarà stata anche cicciona, ma intanto se lo faceva mettere pure nell’orecchio. Tu nel frattempo ti sei fatto Scarlett Johansson, scommetto. Coglione schizzinoso.”

“Questo sì che è un motivo valido e profondo per starci insieme due anni.”

Ridono. Si saranno anche persi di vista per un po’, ma la loro intesa non sembra averne risentito. E come potrebbe? Hanno passato indenni il periodo del campetto, quello dei petardi nel parcheggio e persino quello delle feste universitarie da minorenni.

“Usciamo. Non c’ho più voglia di stare qui.”

“Ma ci siamo appena seduti.”

“No, tu ti sei appena seduto.”

 

La neve dell’altro ieri è già sporca di fango.

Ci provano, ma non riescono a trovare una superficie ancora immacolata da calpestare. Ovunque, orme di sconosciuti passati prima di loro.

“Che fai adesso, Jack?”

“Cammino nel freddo insieme a un coglione.”

“Spiritoso.”

“Ho fatto il concorso per il personale ATA.”

“E…”

“Suca!”

“Per quanto hai ancora intenzione di andare avanti?” Una volta avrebbe riso.

“Ma che hai, Pumba?”

“Non chiamarmi così.”

“Una volta ti piaceva.”

Il silenzio della periferia li inghiotte.

“Non mi hanno preso”, dice Giacomo dopo un po’.

“Cazzo, mi dispiace. Però se vuoi pulire i cessi puoi venire a casa mia.”

“Finisco io e cominci tu?”

 

La piazzetta.

I due sperano che il tempo li abbia trattati un po’ meglio rispetto allo scivolo. La ruggine lo sta letteralmente divorando. La neve, che ora lo ricopre, presto si scioglierà e contribuirà alla sua distruzione. È questo che succede con le cose belle.

Umberto toglie la neve dalla panchina. Si siedono con il culo sullo schienale, come ai bei tempi. Jack si apre il giubbotto.

“Sei scemo? Con l’età che hai, ti ammali.” Poi uno non deve chiamarlo Pumba. Ha il senso dell’umorismo di un maiale.

In giro non c’è nessuno. La mano esce dalla tasca e torna al gelo. Stringe una bustina di plastica opaca e rovinata, dentro la quale si può solo scorgere qualcosa di verde e filamentoso.

Gli occhi di Jack si illuminano e guardano quelli dell’amico ritrovato, ammiccanti.

“No, grazie, ho smesso.” Umberto distoglie lo sguardo. Non riesce a trattenere un fremito.

“Oddio, non dirmi che la cicciona non ti lasciava fare nemmeno questo. Oppure sei diventato un ometto, Pumba?”

La conversazione stagna, fino a trovare la sua conclusione nell’occhiata truce dell’amico.

 

“Sai dove l’ho presa?”

La canna passa a Umberto, che resta in silenzio.

“Dal papà di Alberto.”

“Cos’hai detto?”

“Eh già. Ti ricordi quanto se la tirava? Mio figlio va all’Università! Farà carriera!” Jack si agita, digrigna i denti, ride.

“Mi pare che l’abbia fatta, al contrario di noi.”

“Sì, infatti è a Friburgo a fare il cassiere in un discount. Secondo te suo padre ha speso tutti i risparmi per vederlo seduto dietro un cazzo di bancone? Secondo te suo padre si è ridotto a spacciare a degli sfigati come noi per vederlo arrivare solo fin lì?”

“Come te.”

“Come me cosa?”

“Degli sfigati come te.”

“Vaffanculo.”

Ridono. Proprio come ai vecchi tempi.

 

Appare un giovane dall’altro capo della piazzetta.

Gli occhi ciondolano, ma i due amici distinguono la macchia, che ne porta al guinzaglio una più piccola con quattro zampe.

La canna è per terra, esausta.

“Jack, quella non è Lana?”

“Chi?”

“Lana, la cagnolina di Carlo.”

“I cani di quella razza si somigliano tutti, dai.”

“Guarda che è lei.”

“Impossibile. Quel rotto in culo del suo padrone sarà da qualche parte ad addestrarsi per poi andare in medio oriente a stuprare qualche araba.”

“Stai esagerando.”

“Pensa te. Vorrei averlo io uno zio generale, cazzo!”

“Abbassa la voce, Jack!”

“Oltretutto quel coglione non lo sapeva neanche, di avere uno zio generale! L’ha incontrato per caso a un matrimonio! Ma si può essere così rotti nel culo?”

“Basta! Guarda che quello è proprio Carlo!”

“Pumba, va bene che non fumavi da un po’, ma avere le allucinazioni mi sembra eccessivo.”

“E quella è Lana.”

“Come fai a ricordartela così bene?”

“Su Instagram avevi solo foto con lei.”

 

Le due macchie si avvicinano. I loro contorni diventano sempre più chiari, finché Carlo abbraccia affettuosamente i due vecchi amici.

Umberto ricorda bene il giorno in cui si sono salutati: erano soli. È sempre stato più legato a lui che a Giacomo. Merito di Magic, in primis. Il loro sogno di pubblicare un manuale dal titolo 101 modi per far impazzire la vecchietta del piano di sopra grazie al citofono, alla fine, è rimasto nel cassetto come molti altri. Forse per via del titolo un po’ troppo lungo.

“Carlo, quanto tempo! Come stai?”

“Bene, dai. Purtroppo sono solo di passaggio.”

Giacomo è troppo occupato a correre incontro a Lana per curarsi della conversazione. Fa per abbracciarla ma il labrador, ormai adulto e muscoloso, gli sfugge e si mette ad annusare il mozzicone per terra. I nervi si tendono, la mascella si serra, i denti iniziano a grondare bava. Lana ringhia, i suoi occhi penetrano in quelli di Giacomo. I latrati cancellano il silenzio.

I tre sono immobili, ammutoliti. Solo gli occhi conservano la capacità di muoversi e rimbalzano come palle matte tra i tre volti.

Carlo esita. Mette una mano nella tasca del giubbotto. Movimenti rigidi e lenti, ma inesorabili. Sul walkie-talkie che estrae e porta alla bocca campeggia, bianco su blu, la scritta POLIZIA. Abbassa lo sguardo, sconsolato.

“Mi dispiace, ragazzi. Il dovere è dovere. Vi avevo già visti prima.”

Il dito preme il pulsante, apre il canale di trasmissione.

“Stai scherzando, vero?” Giacomo ride, isterico. È un’allucinazione. È l’erba.

“Cazzo, cazzo!” Umberto si è scosso. Nessuno gliel’ha vista estrarre, ma ha in mano una pistola. La tiene con due mani, trema. La bocca da fuoco dritta verso Carlo.

“Che cazzo fai?”

“No, non di nuovo!”

Poi il botto, il sangue sulla neve, il corpo di Carlo nel fango. A braccia larghe, come se volesse disegnare un angelo. Come quando erano piccoli.

Lana sbarra gli occhi e salta addosso a Umberto. Affonda le zanne nel piumino, che non può proteggere il suo braccio destro. Cadono a terra insieme, l’una sull’altro. Affondano nella neve sporca.

La pistola lì vicino, senza un padrone.

“Jack!”

Giacomo è lì ma non è lì.

“Jack! La pistola!” Umberto sta letteralmente perdendo il fiato. La sua voce si affievolisce a ogni sillaba.

L’amico abbassa la testa. Fissa l’arma come se fosse la prima volta che ne vede una. Si china. Come alla moviola, come in slo-mo con il cellulare, la raccoglie. In mezzo a tutto quel freddo, la mano riprende colore a contatto con il ferro caldo.

Ora è in piedi, punta dritto verso Lana.

“Spara! SPARA!” Pumba è allo stremo.

Jack preme con l’indice, ma il grilletto è troppo duro. Prova a mettere la mano sinistra sulla destra, ma niente. Tende ogni muscolo, ogni nervo, ogni molecola del suo corpo. Niente.

Non ci riesce.

Chiude gli occhi. Davanti a lui, solo una bacheca Instagram con tutte le sue foto insieme a Lana.

Li riapre. Carlo è a terra con un buco nella spalla, Lana sta staccando un braccio a Umberto. Il quadro è disperatamente chiaro, come se lo realizzasse solo adesso.

Non c’è soluzione.

Giacomo butta la pistola e la bustina d’erba nel fango.

Scappa.

Scuote la testa e ha le lacrime agli occhi, ma corre a perdifiato.

Non si guarda indietro nemmeno una volta.

 

Un racconto di Marco Broggini

Illustrazione di Nora

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