Il cielo a Milano

“È congiuntivite.”

Guardo la donna col camice bianco da dietro il mio occhio e mezzo.

“Non l’ho mai avuta.”

Lei alza le spalle, non sa che farsene della mia confidenza.

“Può capitare”, dice. Va a prendermi il collirio condito di antibiotico. Mi è capitato adesso perché ho trentatré anni e le mie difese immunitarie stanno cedendo, vorrei dirle. E poi a Milano il sole non c’è mai e l’organismo umano ha bisogno di sole, una farmacista potrà confermare, a Milano il cielo è sempre grigio.

Non dico niente.

“Due gocce. Il gonfiore diminuirà visibilmente. Mi raccomando, non lo sfreghi.”

 

Mi rovescio il collirio negli occhi e lascio che nuotino nelle due – in realtà sei, per scrupolo – gocce antibiotiche, che si idratino a fondo.

Esco dal bagno, metto a fare il tè.

È lì che lo vedo per la prima volta, sulla superficie dell’acqua che si prepara a bollire. Un punto, come un granello di polvere. Sbatto le palpebre, non posso usare le dita quindi guardo in alto, apro e chiudo, apro e chiudo. Non va via. Ora è sul muro, ora sul quadro finto impressionista, ora sul nero della tv.

Quando Danilo appare sulla soglia, il punto è sulla sua faccia. Viene verso di me, sembra voglia darmi un bacio, invece i suoi occhi sono tutti per il mio occhio sinistro e la sua smorfia non è innamorata.

“È congiuntivite”, la sua diagnosi.

“Ho qualcosa nell’occhio?”, chiedo io. Le sue iridi verdastre si soffermano sulle mie.

“No”, la sua risposta. Mentre sparisce in bagno, mi chiede se sto usando il collirio.

“Sì”, dico io, e lui chiude la porta.

 

Il giorno dopo mi sveglio e la lancetta lunga dell’orologio indica 3 e quella corta una macchiolina d’argento. Faccio per strofinarmi gli occhi, ma il tubetto di collirio mi sorride dal comodino. Sollevo la testa, così la macchiolina scivola sull’8 e svela il 7.

Sposto una mano sull’altra metà del letto, vuota.

Mi alzo, preparo il caffè e in quel momento la porta del bagno si apre. Danilo ha le occhiaie scavate, i capelli umidi e lo sguardo assente.

“Buongiorno”, gli dico. Lui risponde ma non mi dà un bacio. “Sto facendo il caffè”.

Il granello d’argento è tra il macinato e io non riesco a prenderlo con il cucchiaino. Danilo non sembra farci caso quando sbuffo per la frustrazione.

“L’occhio è meno gonfio?”, gli chiedo.

Gli sto di fronte e conosco già la risposta; non prude più, sento che è tornato azzurro e pulito come suo fratello gemello, e per questo sono di fronte a lui, perché così lui mi guarderà e mi troverà di nuovo in tutto quest’azzurro.

“Si è sgonfiato parecchio”, dice. L’argento è sulla sua guancia, non nei miei occhi. Provo a catturarlo, gli sfioro la guancia in una carezza goffa, proprio dov’è la macchia, ma sotto le dita sento solo la sua pelle ruvida e lui che si irrigidisce, lo potrei giurare, si irrigidisce fin nelle ossa. Mi dà le spalle e lo fa senza l’esitazione che vorrei vedere.

 

Passati i cinque giorni di collirio, torno a strofinarmi l’occhio sinistro; prima cerco di essere delicata, poi sfrego, infine ne tasto la superficie con il polpastrello alla ricerca della goccia d’argento.

Lo vedo nella zuppa di lenticchie che mangio tre sere a settimana. È sull’abat-jour, sul soffitto, accanto al mio riflesso nello specchio del bagno. È sulla schiena di Danilo, più raramente sul suo viso.

“È come se avessi una macchia sullo schermo del computer”, cerco di spiegarmi. Danilo sta fumando, e finché fuma non cambierà stanza. “Un po’ ci ho imparato a convivere, ma cresce. Ha guadagnato altri quattro centimetri nelle ultime due settimane”, aggiungo, con un accenno di sorriso.

“Come lo sai?”

“Cosa?”

“Che sono proprio quattro centimetri”.

Ha un’espressione strana, le labbra vorrebbero sorridere ma sono un ghigno, gli occhi sembrano stagnanti. Lo faccio senza rendermene conto. Piego leggermente il viso e l’argento finisce sulla sua faccia, e lui scompare, è un corpo e una sigaretta e una voce lontana.

 

In bagno, ispeziono a fondo il mio occhio. Il mio respiro appanna lo specchio, i miei occhi si guardano, si sgranano, si studiano. L’argento è in quello sinistro, macchia l’azzurro. Eccolo, lo vedo.

Ma poi guardo in basso, lui si sposta con me e lo ritrovo appoggiato alla valvola dell’acqua fredda.

 

Danilo mi conferma che non ho niente nell’occhio.

“Altrimenti ti brucerebbe”, senza chiedermi se mi brucia.

La verità è che quasi mi piace, questa macchia che un po’ nasconde un po’ rivela, e rende tutto più sopportabile.

“Forse è un tumore”, gli dico. Non ci credo davvero, glielo dico solo perché spero di fargli tenerezza.

“Non è un tumore”. Mi spegne, nella sua voce non c’è alcuna volontà di rassicurarmi. Resto in silenzio, lo guardo mentre arrotola gli spaghetti con la forchetta. L’argento gli copre la spalla e parte del braccio. Uno di fronte all’altra, muti, a scrutarci con sospetto: la sua immagine mi appare disturbata e forse anche lui, se glielo chiedessi, direbbe la stessa cosa della mia.

 

Di notte ho gli incubi. Li ho spesso, non sempre così vividi. Stanotte è una di quelle in cui torno in un bagno sudicio, chiudo la porta, l’aria è densa e sudata, o forse sono io, o forse è lui, quest’uomo con il piercing e gli occhi neri e le mani grandi. E c’è ancora argento, quello della scritta con l’uniposca sulle piastrelle, “non annegheremo mai”, dice. C’è il chiodo di metallo conficcato nella sua lingua e il sapore ferroso che avverto non appena lo sfioro con la mia. E c’è l’anello al mio anulare sinistro, non è stato lui a metterlo lì, è stato un altro, non ricordo chi, non voglio ricordarlo. L’uomo mi guarda con i suoi occhi neri e quell’anello scompare insieme alla mia mano sinistra nei suoi pantaloni.

 

In un altro bagno, il mio, vomito gli spaghetti nella tazza. Mi aggrappo con le mani ai bordi di ceramica, penso che morirò, per qualche secondo potrei quasi giurarci, sto morendo, sto morendo annegata nel vomito.

Invece non muoio, torno in camera da letto, mi stendo sulla mia parte di materasso. Danilo è a pancia in su, il suo respiro è irregolare, gli occhi sbarrati fissano il soffitto. Faccio la stessa cosa. Mi viene da piangere e quindi piango, l’argento si scioglie e stempera il nero.

“Mi dispiace”, singhiozzo. Tiro su col naso, e poi di nuovo, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Lo dico così tante volte che la parola smette di avere senso e il suono diventa buffo. Per la seconda volta in una notte penso che morirò annegata, così, nelle mie lacrime. Danilo non dice nulla. So che vorrebbe andarsene, il suo corpo freme per abbandonare il letto, la casa, me. Non si muove, forse non lo vuole davvero o forse non ci riesce. Allungo la mano verso la sua, gliela stringo, lui non ricambia ma nemmeno mi sfugge. Inerte. Forse è lui a essere morto. Forse l’ho ucciso io.

 

Danilo si è addormentato e ora mi dà le spalle.

Ripenso al piercing dell’uomo, ne risento il sapore in bocca. Mi sfilo l’anello dal dito, lo appoggio sul comodino.

La macchia è cresciuta ancora.

Guardo fuori dalla finestra. Il cielo di Milano è diventato argento.

 

Un racconto di Sara Canfailla

Illustrazione di Maria Caruso

Lascia un commento