La morte nello specchio

In memoria di Michelangelo Antonioni

 

 

Sono sdraiato nello scompartimento vuoto di un treno che va da Sofia al Mar Nero. Il resto della troupe è già a Varna. Sono andati in macchina ma io ho preferito il treno, non mi fido di strade che non conosco. Inoltre qui i treni sono lenti e non li prende nessuno. Posso sdraiarmi sui sedili vuoti, leggere, dormire, guardare.

Per tutto il viaggio ho tenuto la testa appoggiata alle porte dello scompartimento. Non mi sono mosso. Tutto quello che è successo l’ho visto nel riflesso del finestrino che ho davanti. Una madre con il figlio che mangiava una barretta di cioccolato a morsi, un uomo con un cane addormentato in braccio, una coppia sudata che si teneva per mano. Il paesaggio brullo dietro ai riflessi rendeva le cose più interessanti. Ora, con il buio, il finestrino è diventato uno specchio. Il controllore che a ogni fermata vedo apparire nel vetro ha una densità diversa da quello che c’era prima. Non è più lo sfondo dei miei pensieri, li catalizza. Lo osservo con attenzione. Si sporge dal finestrino che ho alle mie spalle, nel corridoio. Tiene una torcia spenta in mano e urla alla gente sulle banchine. Gli specchi che riflettono me stesso mi annoiano, la mia immagine non m’interessa. Quelli che riflettono gli altri mi fanno ricordare.

Penso a Davide, il mio direttore della fotografia. Durante le riprese de Morirò un altro giorno ci fu un atterraggio di fortuna. Stavamo girando una sequenza in cui un aereo si abbassava e sfiorava il tetto dell’auto di un uomo in fuga. Eravamo in tre sull’aereo, Davide, il pilota ed io. Era un aereo con il carrello fisso che usavamo per la prima volta. Fu per questo, forse, che il pilota si abbassò troppo e urtò il tetto della macchina, sfasciandolo. Dentro c’erano l’attore e un mio assistente. Non si sentì un gran rumore, e immaginai che non fosse successo nulla di grave. Poi mi sporsi a guardare giù e vidi una ruota che rotolava via. Volavamo sulla campagna a nord di Sofia.

Chiesi a Christi, il pilota, come fosse possibile che una ruota della macchina fosse volata via se avevamo urtato il tetto.

«Non è una ruota della macchina, è nostra,» rispose lui con voce angosciata. Poi con un cenno della testa indicò il corpo del mio assistente che giaceva a terra, ricoperto di sangue. Era solo ferito ma in quel momento ci sembrò morto. L’attore era lì accanto, immobile, lo fissava con le mani nei capelli. Il resto della troupe stava accorrendo con le altre macchine, sollevando un gran polverone.

A noi aspettava un atterraggio di fortuna. Cominciammo a girare in cerchio. Dovevamo consumare il carburante e aspettare l’ambulanza, i pompieri…

Christi comunicava a terra con la radio e Davide si sporgeva fuori e urlava cose che non ascoltavo a quelli che stavano a terra. Teneva un estintore in mano. Io, invece, ero calmo. Chiesi a Christi le possibilità che avevamo di salvarci. «Poche.» Fumava una sigaretta dietro l’altra. Ma era un pilota straordinario, mi fidavo di lui. Presi ad alleggerire l’aereo buttando fuori tutto quello che non ci serviva. Diedi la macchina da presa a Davide. «Filma», gli dissi. Si sporse di nuovo fuori, con una mano filmava e con l’altra teneva l’estintore. Sono le riprese dall’alto della campagna, se avete visto il film forse le ricordate.

Continuavamo a girare in tondo. Poco distante c’era la pista da cui eravamo decollati un’ora prima. Ci avvicinavamo, e pareva che stessimo per atterrare, ma poi ci sollevavamo di nuovo. Christi parlava in bulgaro fitto alla radio. I miei collaboratori, i tecnici, gli operai, si erano tutti radunati sul bordo dell’ultimo tratto di pista per assistere all’atterraggio. Molti erano sopra i tetti delle auto. Per un po’ li guardai, poi mi misi a osservare il paesaggio circostante. Non c’era niente di diverso dal solito, non c’era ragione che noi invece cambiassimo e da vivi diventassimo morti. La cosa mi fece addirittura sorridere.

Ora, nel treno bulgaro, intravedo le colline scure oltre il finestrino e penso a qualcosa di simile. Conosco bene questo paesaggio: è la Bulgaria di sempre.

Il controllore accende la torcia e illumina la banchina di un paese sconosciuto. Questa volta ad aspettare non c’è nessuno.

 

Un  racconto di Jacopo La Forgia

Illustrazione di Alessia Arti

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