La coda della cometa

Il treno della Roma-Lido scivola verso il mare: ciondola lento tra gli ex Mercati Generali e la Basilica di San Paolo, poi procede spedito sulla valle del Tevere schiusa fino alla Magliana. Lei fissa le incrostazioni sul vecchio finestrino. Acqua e terra. Pareidolie.

L’ombra di un caseggiato le restituisce di riflesso l’immagine arruffata del suo viso. Si osserva, indulgente, poi socchiude gli occhi sui ricordi. Quarantadue anni e l’ennesimo amore sbagliato.

Che poi, amore? Carlo non le aveva presentato neanche un amico e all’inizio questo suo volerla tutta per sé l’aveva addirittura lusingata. Ma le scuse accampate per non portarla al matrimonio di un suo collega, per non accompagnarla al compleanno della cugina, non avevano più retto.

 

Gli aveva chiesto se fosse sposato, cogliendolo alla sprovvista qualche ora prima su un letto disfatto. La verità si era manifestata contro il cielo albescente. «Cioè tu mi piaci, capisci?» aveva farfugliato, «quando siamo soli, insomma lo sai… ma come cazzo faccio a farmi vedere in giro con te?».

I cinque secondi di imbarazzante silenzio che avevano preceduto le scuse e i tentativi di recuperare la situazione le erano bastati. Turbata e incapace di replicare aveva racimolato i vestiti indossandoli goffamente ed era scesa in strada. Aveva camminato a lungo fino a trovarsi in stazione. In attesa del treno aveva telefonato in Facoltà per posticipare di qualche giorno la data dell’esame di Urbanistica, immaginando il giubilo dei suoi studenti alla notizia. Avrebbe passeggiato sulla spiaggia a piedi nudi, controvento. Aveva bisogno solo di questo, si era detta, e già assaporava il calore del sole sulla pelle, l’odore salmastro su per il naso.

 

Ora, però, quel maledetto vetro che riflette la sua espressione da pipistrello letargico le scuote i nervi tesi. Brutta è brutta, per questo si era data da fare, tanto, e aveva puntato su altro. Ma a chi importava?

Due ragazze salite alla stazione di Tor di Valle la distraggono, i suoi occhi si agganciano ai loro vent’anni. Prendono posto proprio davanti a lei, sbattendole in faccia gambe nude e rumorosa allegria. Non la degnano di uno sguardo. Si scambiano gomitate e occhiate scaltre scorrendo gli indici sui display dei rispettivi cellulari, hanno lunghe unghie tinte dello stesso fucsia. Si contano i like a vicenda, commentando con risatine furbe e gergo romano le foto dei maschi capitolati sotto il selfie che hanno scattato poco prima alla stazione. Tutto, in loro, trabocca di una prepotenza smaliziata, di una sicurezza che a lei è sempre mancata.

Pensierosa, torna a concentrarsi sulla forma delle incrostazioni. Toh, un rinoceronte, Lady Oscar, una locomotiva, una cometa. Sorride fra sé, Roma ha la stessa forma e il treno che la sta portando verso Ostia ha contribuito a crearne la coda. Lo sanno bene i suoi studenti: aveva tenuto una lezione sul fenomeno dello sprawl urbano, oggi avrebbe voluto chiedere proprio questo all’esame. Buffo, no? Trovarsi invece qui, ora, con un bagaglio di conoscenze che nulla può contro i capelli crespi e il culo grosso. Sorride sbuffando col naso e le due ragazze si voltano per la prima volta verso di lei. Una alza il sopracciglio, l’altra fa una smorfia, poi tornano alle loro cose e lei diventa di nuovo invisibile.

 

Dentro, invece, si sente d’improvviso pesante, esageratamente stanca. I ricordi o, ancor peggio, la loro assenza, come macigni le piegano le spalle. Nessuna amica con cui frivoleggiare, nessuna comitiva ad aspettarla in spiaggia, nessuno sguardo di desiderio a seguire le sue falcate.

Rabbrividisce.

Osserva le due ragazze con la coda dell’occhio e non può fare a meno di pensare che sua madre le adorerebbe e Carlo le presenterebbe a tutti, come un trofeo. Lei invece no, lei è il fagotto che elemosina affetto, quella per cui alla fine non ne vale la pena. Lei è quella piena di interessi sì, ma che annoia. Quella che ascolta certo, ma corregge i congiuntivi. Quella che ha imparato a cavarsela da sola, e che sola è rimasta ancora.

Inspira, ma l’aria sembra fermarsi in gola.

«Come cazzo faccio a farmi vedere in giro con te?». Lo aveva detto davvero e lei aveva taciuto.

Fa un colpo di tosse, inspira di nuovo portando una mano al diaframma che si solleva, ma l’aria sembra un liquido bollente che le riempie la bocca.

Si alza. Sente che sta per vomitare. Ha le orecchie imbottite dalla pressione del turbamento. Si avvia verso le porte urtando diversi passeggeri, ha fretta di scendere. Altro che sabbia e capelli al vento. Lei deve tornare indietro, deve farsi rispettare, dannazione! Andrà a dirne quattro a Carlo, subito. Ma l’elenco di chi ha contribuito a farla sentire insicura è lungo. Ne avrà per giorni, si dice, mentre barcollando s’incammina sulla banchina. Forse avrebbe dovuto iniziare proprio da quelle due svampite che l’hanno guardata come se fosse un vecchio straccio per pavimenti. Si chiede se sia il caso di tornare sui suoi passi, risalire sul treno, si sente frastornata, in preda a qualcosa di simile al panico che le offusca la vista.

 

Un sussulto sbatacchia passeggeri e bagagli, i freni stridono pochi istanti dopo la partenza. A una delle due ragazze cade la borsa a terra, crema solare e accendino rotolano vicino ai piedi inciabattati di una vecchia che grida d’impulso: «Attentato! Attentato!»

Trambusto e preoccupazione si impadroniscono del convoglio ferroviario. Alcuni stanno coi nasi appiccicati al vetro, tentando di scoprire per primi l’accaduto. Altri fanno ipotesi senza scomporsi, troppo abituati ai disagi e ai ritardi della tratta. Poi arriva la notizia di un corpo sui binari. Nella carrozza numero sei un gruppetto di persone tentenna incredulo: il guasto al motore era quotato 10/1, il suicidio 3/1. Forse è stato un incidente, azzarda un ragazzino.

Il controllore passa da un vagone all’altro invitando tutti a mantenere la calma e a scendere dal treno. Lo 068 percorrerà su ruote lo stesso tragitto, dice, portandoli a destinazione. Una compagnia di giovani protesta, però, per il disagio. Altre lamentele si sollevano da più voci, non tutte si placano alla vista del cadavere scomposto, coperto alla bell’e meglio. Una coppia di anziani si fa il segno della croce. Un gruppo di spagnoli osa scattare una foto.

Poi scendono le due giovani. Una si mette le mani davanti agli occhi, dice: «Nun vojo guarda’, sennò stanotte nun dormo». L’altra, invece, spavalda allunga il collo per esaminare la scena, poi sbuffa delusa e dice: «Se vedono solo le scarpe. Annamo ar mare va’».

 

Un racconto di Cristina Pontisso

Illustrazione di Melissa Brusati

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