Usignolo

Mi chiamo Melanie, ho ventitré anni da pochi giorni e il ventitré, così mi ha insegnato un film, porta una sfiga tremenda. Ora sono curiosa di vedere cosa si inventerà la sorte per peggiorare la situazione.

Ho una madre, un padre, un fratello, una gatta, un’agenda che non uso, una scrivania bianca con un piccolo scarabocchio nell’angolo destro, una sedia da ufficio con le rotelle che ha una ruota rotta, tre-quattro amici veri, nessun sogno, qualche obiettivo e un sacco di desideri.

Ora ho anche una sigaretta. In mano. La sto tenendo come se fosse un usignolo ferito. A fianco alla lampada, sul comodino, c’è un posacenere. Da mezz’ora, prima non c’era. Io non fumo. Ho provato una volta a quattordici anni e ho tossito mezz’ora.

Il motivo per cui sono finita così è che mio padre sette anni fa mi è caduto addosso. E sembra una stronzata. Della serie che tutti inciampano nella vita.

Ma mio padre mi è crollato addosso perché è svenuto. E non si riprendeva. Neanche io mi riprendevo tanto, visto che mi ha trascinato con lui e ho tirato una craniata per terra che ancora oggi mi faccio il ciuffo a sinistra per nascondere la cicatrice. Per fortuna che mamma era in casa ed è venuta a salvarci.

Beh, comunque il punto è che mentre io grondavo sangue lui si stava preparando ad affrontare cinque giorni di coma e altri cinque di degenza, una tracheotomia e una cartella clinica che suonava più come una dichiarazione di guerra.

Mio fratello aveva sei anni, quindi non doveva sapere nulla. Allora, per tutti e dieci i giorni, si finiva sempre che la sera io e la mamma ci trovavamo in cucina a parlare di papà. E per bene che andasse me ne tornavo a letto che non mancavano molti quarti d’ora all’alba. Dopo poco suonava la sveglia per la scuola e da lì potete immaginare. Non è stato un bel periodo nemmeno nei mesi seguenti: lezioni non ascoltate, doveri parentali, carenza di sonno, stress e voti che pur di non farli crollare sarei stata disposta a farmi venire un infarto, così se papà fosse finito in ospedale di nuovo magari ci avrebbero messi vicini di stanza.

La diagnosi aveva molte declinazioni per essere comunicata. Tre principali: scientifica, sentimentale, semplice. Che rispettivamente suonavano così “iperplasia adenomatosa atipica causata da un carcinoma bronchioalveolare”, “papà sta per morire”, “cancro”.

Quando tornò a casa arrivarono le notizie importanti. Quelle che più che gettarti in una situazione di media angoscia in cui non sai se sei tu pessimista o il resto del mondo troppo ottimista ti dicono realmente come potrebbero andare le cose. In breve le possibilità di scamparla erano del trenta percento, avrebbe dovuto fare vari cicli di chemioterapia e, attenzione attenzione, finalmente ci siamo, smettere per sempre di fumare.

Ora sappiate che mio padre si spaccava due pacchetti e mezzo al giorno come se niente fosse. Privarlo delle sigarette così di colpo fu come prendere un baco da seta e bruciargli la crisalide.

 

Ora secondo me la possiamo saltare la parte dove vi racconto che papà sta male, vomita e perde i capelli. Mamma soffre, il mio fratellino piange, io litigo con chiunque, eccetera eccetera eccetera. E passiamo al presente.

Ora è guarito, con la ferita di battaglia di un polmone in meno. In famiglia le cose vanno di nuovo bene e i miei amici mi hanno perdonata per essere stata così acida con loro.

 

Però ieri ho imparato una piccola cosa, quando ho preso l’auto di mio padre per uscire. Che non teniamo mai in considerazione abbastanza fattori per riuscire a nasconderci come vorremmo. Della serie che se fino a mezz’ora fa stavo piangendo come una disperata è solo perchè non si è ricordato che sono venti centimetri più bassa di lui.

Il fatto è che sono salita in macchina e ho spostato il sedile in avanti per raggiungere meglio i pedali. Il gesto è stato involontariamente violento e questo ha fatto sì che il cassettone sottostante sputasse fuori un pacchetto di sigarette.

Ecco, finché le storie le inventi devi spiegare tutto, ma quando quello che ti succede è vero a volte devi tagliare. Più che altro perchè ciò che definiamo cliché o luogo comune, in verità sono solo quelle cose che succedono a tutti per davvero e che tutti capiamo alla perfezione.

La realtà è che la vita è semplice e ci piace vederla più complicata per farla sembrare più figa.

La cosa insolita- ecco, questo devo proprio dirvelo – è che quando due ore dopo frignavo sulla spalla di papà lui non faceva altro che parlarmi dei miei occhi. Sembrava un contest di anatomia. Io che singhiozzavo conoscenze paramediche sui polmoni e lui che  provava a incantarmi e a calmarmi facendo tenere osservazioni sulla mia iride, con frasi del tipo “con quello sguardo cadranno tutti ai tuoi piedi”, “hai degli occhi che mi incantano”, “quando mi guardi penso solo a quanto sia bella mia figlia”. Nel frattempo mi accarezzava il viso e la schiena. E mi stringeva con le sue braccia da orso facendo una pressione a metà tra il tentativo di consolarmi e il desiderio di non vedermi andare via.

Era evidente che non saremmo mai giunti a una conclusione utile, anche se sono convinta che un giorno capirò perchè mi abbia detto queste cose. E magari, in un momento di tristezza, mi farà tornare il sorriso ripensarci.

Comunque ho preso il pacchetto insieme all’accendino – non ha opposto alcuna resistenza -, un posacenere ornamentale dalla sala, e me ne sono filata in camera.

Ed eccomi qui, con l’usignolo in mano, a chiedermi perchè abbia riiniziato. Chissà cosa ci sarà di così speciale.

Adesso l’accendo.

Tiro giù la prima boccata e non tossisco. Sta a vedere che non ho inspirato o, come dicono in gergo – i fumatori sono tipo una setta, hanno un vocabolario tutto loro – non ho buttato giù. Così provo il secondo tiro, ma il risultato non cambia. Allora faccio il terzo, davanti allo specchio stavolta. Sì, sto fumando proprio come loro e non mi sta succedendo nulla. Forse solo un leggero giramento di testa, ma mentre credevo che papà fosse destinato a morire mi sono informata sugli effetti del tabacco e pare che, a chi non è abituato, la nicotina faccia così.

Amen, penso, già che ci sono la finisco. Se non tossisco non è poi così male.

La schiaccio sul vetro del posacenere con ancora due fiati e mezzo rimasti e mi stendo sul letto. Crollo.

 

Mi risveglio che l’orologio segna le nove del mattino. Sarei dovuta andare all’università, ma nessuno è venuto a chiamarmi. In camera dei miei il letto è sfatto e sul comò di papà c’è la cartellina da ufficio con tutti i referti, le diagnosi e i risultati delle analisi. Non credo che rileggere tutto gli abbia fatto bene, ma comunque meno male di una sigaretta.

La prendo e me ne torno sul MIO letto, a fianco al MIO comò, dove c’è ancora il pacchetto che gli ho preso ieri. Ne estraggo una e avvicino la fiamma. Poi sfoglio, e per la prima volta vedo per iscritto quello che ho sempre e solo sentito pronunciare dalla voce di mia madre. Il fumo mi va negli occhi e mi appanna la vista. Forse ora è solo per questo che mi viene da  piangere. Ed è come se stessi leggendo la quarta declinazione delle cose, niente carcinoma, niente sta per morire, niente cancro.

Solo un semplicissimo “Hai degli occhi stupendi, non piangere”.

 

Un racconto di Thomas Tramarin

Illustrazione di Ilaria Bressan

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