Diciassette

Elena parcheggiò il motorino.

Le bastavano diciassette gradini per raggiungere il suo posto speciale, un quadratino di terra e sterpaglia a ridosso del fiume. Dal basso vedeva le imponenti mura di pietra che contenevano l’Adige, molto più in alto c’era l’austera Verona, ma in quel posto segreto riusciva a dimenticarsene.

La prima volta ce l’aveva portata suo padre, a cinque anni, e lei ingenuamente aveva chiesto se lì ci si potesse fare il bagno. Lui aveva risposto che poteva considerarla la loro spiaggia privata, ma il bagno era fuori discussione. La corrente se la sarebbe portata via.

Suo padre era sempre stato un prestigiatore: trasformava posti e persone rovinati dal tempo in piccoli miracoli. Lo faceva anche con se stesso.

Elena continuò a chiedergli di tornarci per tutto il periodo delle elementari, e lui ogni sabato l’assecondava. Restavano lì fino al tramonto, a volte ignorando tossici e barboni, chiacchierando di tutto finché la polvere non le faceva lacrimare lo sguardo.

Diciassette gradini. Li discendeva svelta, senza prendere fiato, perché adorava l’attimo di smarrimento che precedeva l’atterraggio: quel vuoto, prima di avvertire la durezza del suolo sotto i piedi.

Diciassette gradini, come i suoi anni.

Uno perché era la sorella di mezzo, troppo grande per comprendere il mondo fantasioso di Simone, troppo piccola per le morali di Davide e per i suoi: Un giorno capirai.

Uno per Eleonora, la sua amica d’infanzia, che in prima media si era trasferita a Roma con i suoi.

Uno per la luna, quel faccione rotondo prigioniero dei bordi della sua finestra, lassù, nella mansarda che divideva con Davide quando aveva sei anni. Una luna che le parlava, le rispondeva, le faceva i dispetti, e scoprire mesi dopo che non era una voce aliena, ma quella camuffata del fratello. L’ennesima lezione di vita: attenta ragazzina che la gente ti frega, tutti, anche quelli che ami di più, perché c’è sempre uno scarto tra verità e illusione, un piccolo inciampo da cogliere per non cadere.

Uno per Ulisse, il cane in fuga.

Uno per Alina, Marianna, Sandra, per tutte le anime strane che collezionava sua madre. Le prendeva in casa per un periodo, giusto il tempo di vederle compiere un passo in più per raddrizzare le loro vite.

Uno per il nonno, che a Natale veniva a trovarli dalla Puglia, per le sue Diana blu fumate di nascosto sul balcone, perché il medico aveva detto che se continuava così se ne sarebbe andato presto. Ma nonno non amava le scadenze, aveva visto la guerra lui, e poi gli anni del dopo, molto più brutali delle bombe o dei razionamenti, perché c’era più oscurità nella polvere, nel silenzio delle macerie, nella conta di chi era sopravvissuto alla devastazione e quella devastazione doveva reinventarla, renderla migliore del prima.

Tre erano per Giorgio, per gli anni in cui l’aveva amato da lontano, con pazienza, costruendo un’immagine di lui nella testa, una in cui era invincibile, dolce come nessun altro, coraggioso come gli eroi dei miti greci.

Uno era per l’anno in cui lui l’aveva ricambiata, per posare la testa sul suo torace e ritrovare il suono cadenzato del treno sulle rotaie, lo stesso che prendeva da bambina per andare in Puglia. Un cuore umano granitico, mai una nota fuori sincrono o un piccolo singhiozzo.

Uno per i suoi disegni, solo matita e carboncino, perché le piaceva sporcarsi le mani e mettere tre punti di sospensione al Tempo, per fermare un secondo la corrente del fiume e abbracciare l’immobilità.

Uno era per Giulia e per Anna, che dalla corrente erano state spazzate via nell’estate dei suoi tredici anni. Piccole bare di legno, come la palafitta che non aveva retto alla furia del torrente ingrossato dalla tempesta.

Uno per suo padre, il prestigiatore, che aveva ripulito la postepay di Davide l’anno prima, tutti i soldi guadagnati con il part-time da cameriere finiti in birra scadente e nei videopoker.

Uno per quando era scappata di casa, due mesi fa, prendendo un treno e finendo a Firenze, quattrocentoquattordici scalini fino alla cima del Campanile di Giotto, bui, stretti e alti, con l’affanno e le palpitazioni, e poi il cielo dalle grate e una città misteriosa ai suoi piedi, spaccata a metà da un fiume diverso.

Uno per sua madre che si spaccava la schiena in fabbrica, ma la sera trovava il tempo per raccontarle una storia. Non erano mai favole, ma episodi bizzarri della sua adolescenza. Capirai, diceva alla fine, per alcuni è uno strazio da dimenticare, per altri è il secondo immacolato in cui si è cristallizzata ogni prima volta, e cosa c’è di meglio di quel piccolo passo verso l’ignoto? Il primo, quello eroico e spaventoso che muove l’universo.

Uno per quando aveva visto suo padre andar via, tre mesi prima, ammanettato. Un tentativo di estorsione finito male.

L’ultimo era per quel posto a ridosso del fiume, il suo posto, quello che conservava la purezza di un passato in cui la realtà non corrodeva lo sguardo, quella realtà che sgretolava di anno in anno le illusioni del suo prestigiatore.

Gli occhi di Elena affogavano in quelle acque fangose, e il suo posto speciale diventava una prigione. Era venuta a dire addio, a farsi scivolare dalle dita gli ultimi rimasugli di polvere.

Desiderava lasciarsi andare, galleggiare senza peso trasportata dalla corrente, approdare al mare ignoto in cui terminava ogni rampa di scale.

Ma poi pensava ai diciassette gradini da risalire, e di quando di anni ne avrebbe avuti trentaquattro, e poi cinquanta e ottanta, a quando avrebbe accolto ragazze in casa, fumato di nascosto sul balcone o raggiunto quel giorno di comprensione che suo fratello aveva già conquistato.

Ripensava alla voce di sua madre, alle molteplici rampe di scale in salita e in discesa di cui le parlava in continuazione, perché ci sarebbero state sempre, l’importante era continuare a spostarsi, a compiere quel primo passo, eroico, spaventoso, che muoveva l’universo.

Si voltò e iniziò la risalita.

Un racconto di Giovanna Giordano

Illustrazioni di Alessia Arti 

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

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