Dall’altra parte

Non sarei potuto rimanere con mia madre perché sono troppo grande, ma quando i tedeschi hanno portato via gli uomini, di me, si è accorta solo una persona.

 

Suor Agnese cammina con le caviglie gonfie su e giù per il corridoio, ha un cappello a falde enorme, di quelli che non mi sembra di aver mai visto, altrimenti, credo, me lo ricorderei. È lei che mi ha fatto entrare qui, nel carcere le Nuove di corso Vittorio, a pochi isolati da dove partono i treni. Abitavamo da un’altra parte, noi, all’ultimo piano di un condominio di via Vanchiglia, vicino al fiume.

Quando sono arrivati hanno buttato giù la porta con il calcio del fucile.

 

Nel braccio femminile all’inizio del corridoio, vicino all’infermeria, c’è una cella piena di bambini. Sono tutti molto più piccoli di me.

Questo dove siamo è solo un pezzo del carcere. Di là deve essere più grande. Di là ci devono essere gli uomini, mio padre, i tedeschi. Non credo ci siano le suore, di là.

Capita, delle mattine, che mi svegli con la sensazione che ne manchi uno di quei bambini della stanza in cui stiamo.

 

Sono arrivato alla conclusione che dietro tutti quei cancelli di cui solo Suor Agnese ha le chiavi, dall’altra parte, deve esserci qualcuno di importante, un pezzo grosso, perché la fabbrica di cioccolato della città gli regala parecchie tavolette incartate, con sopra stampato il logo della ditta. Tutte le volte che arriva devo nascondermi. Qualche tempo fa ho pensato che probabilmente quell’uomo vede mio padre. Se è ancora vivo, forse, è lui che lo tortura.

 

La verità è che ora Suor Agnese non sa più dove mettermi. Vorrei stare con mia madre. Passo molto tempo in infermeria. Dondolo i piedi nel vuoto. Mi cola sempre il naso e ho le nocche crepate. Mi chiedo come stia mio padre.

 

Il braccio femminile non è grande. Quando Suor Agnese è sicura che i tedeschi non verranno, posso camminare. Cerco di non stare troppo vicino alle porte sbarrate, sono gelide. Solo quando arrivo alla quattordici mi avvicino. Mi avvicino e sento la fame. Mi siedo lì, e aspetto. Mia madre deve essere molto magra.

Quella storia delle tavolette la so perché il tedesco deve riceverne troppe, oppure il cioccolato non gli piace. Fatto sta che ne lascia parecchie a Suor Agnese, che le passa a me.

Attraverso la porta della cella di mia madre non riesco a vedere nulla, in altezza non arrivo allo spioncino, ma credo che se anche riuscissi a raggiungerlo, oltre le grate, lo troverei sbarrato. Tra i cardini e il muro c’è appena uno spiraglio, ma tra il metallo della porta e il muro c’è qualche millimetro di differenza. Lo spigolo in muratura è irregolare, leggermente sporgente. L’ho osservato a lungo.

Sarà che fa freddo, sarà che mangio poco, ma il cioccolato mi nausea. Ne tengo un pezzetto in tasca, sul fondo, ché qui, anche se sta a contatto con la coscia, non si scioglie.

Mi accovaccio lì, davanti alla fessura, e lo tiro fuori. Lo stringo tra l’indice e il pollice e ci provo, lo sfrego contro il muro e soffio, in modo che le scaglie di cioccolato cadano dall’altra parte.

 

Un racconto di Martina Merletti

Illustrazione di Maria Sciannimanico

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