Marco Pellino_Emilia Bifano_Narrandom blog di racconti

Il profumo degli armadilli

Avevo cinque, forse sei anni, quando ho visto il mio primo armadillo. Sembrava un topo, un topo in armatura medievale. Niente di più banale, dirà lei, dottore. Non un’immagine più banale poteva essere partorita dalla scatola cranica di un cinquantenne stempiato.

La scatola cranica, che cosa affascinante, ho provato a inserire una chiave anche in quella.

 

Ma torniamo all’armadillo: passeggiava tra le foglie del parco est, quello che prima era un’oasi naturale. Era stato mio padre a convincermi ad avvicinarmi, mi aveva detto che il profumo degli armadilli custodisce un qualche tipo di segreto. A me interessava solo cercare di toccare quel topo corazzato, capisce? Ma quando avevo provato ad allungare la mano quello si era chiuso, appallottolato a guscio ritraendo il muso e le zampine e io mi ero spaventato a tal punto da correre via fino alla strada. Non sono rientrato per anni in quel parco.

 

Mio padre era uno strano tipo, passava ore a osservare armadilli, tartarughe, nautilus, lumache. Costruiva congegni di legno, quelli che si risolvono con giochi di logica. Raccontava di aver conquistato mia madre con uno di quegli aggeggi. Ma non ci aveva nascosto mica un anello dentro. Vallo a capire quell’uomo. In realtà non ho mai scoperto cosa avesse fatto innamorare mia madre. Di lei non so molto in realtà. Ricordo che la osservavo mentre passava giornate intere a mangiarsi le unghie come fosse uno scoiattolo, sembrava volesse mordersi tutta fino ad arrivare ai gomiti come quando si spolpa una succosa coscia di pollo.

Un giorno avevo chiesto a mio padre perché, invece di tutti quei congegni, non le avesse mai costruito delle mani da mangiare. Lui non mi aveva risposto, lui non sapeva ascoltare nulla se non la sua voce. Forse per questo lei era sparita all’improvviso, per smetterla di digrignare i denti la notte e di consumarsi fino alle ossa.

Ma torniamo a noi.

Nessuno dei giochi di mio padre aveva una chiave, si risolvevano con combinazioni di movimenti, scatti precisi che aprivano il congegno e spesso liberavano come premio biglie di vetro e confetti di zucchero colorato.

Ma erano invece le chiavi a incuriosirmi. In questa stanza entrando ne ho viste sei: una alla porta, due appese al taschino della sua giacca, tre che premono sulla sua coscia nella tasca destra dei suoi pantaloni. Sbaglio?

L’unica chiave importante della mia infanzia era quella della mia camera. Passavo ore chiuso dentro in silenzio, sul mio letto, a tentare inutilmente di risolvere i giochi di mio padre.

 

Sono tornato al parco quando avevo quindici anni, sono tornato al parco e ho visto uno di quegli stupidi animali. Non avevo armi per difendermi, capisce? Avevo solo la chiave di casa, una di quelle lunghe a doppia mappa, quelle da porta blindata, quelle che profumano di ferro bruciato e che a furia di girarle nella serratura perdono il primo strato e si consumano a macchie d’oro.

Mi sono avvicinato e l’ho colpito. Si è appallottolato, l’ho colpito ancora e mentre lo colpivo non potevo fare a meno di sfiorare la sua corazza squamosa. Infilavo la chiave nella carne e le dita sotto il primo strato di pelle, osservavo con soddisfazione quel mio nuovo guanto caldo. Sentivo il cuoricino battere contro i polpastrelli e il sangue filtrare sotto le unghie. Sollevai la chiave appuntita e colpì con forza la testa che ancora cercava riparo.

Ho iniziato a infilare quella chiave in qualsiasi serratura, poi nella frutta, nelle scatole ovunque vi fosse la possibilità. Ma non mi bastava.

 

Non mi bastava. Volevo scoprire di più, volevo consumare tutto il rivestimento d’argento e scoprire l’oro. L’avevo resa più appuntita usando gli strumenti con cui mio padre costruiva quei maledetti rompicapo. Maledetti loro, dannato lui. Ora starà bruciando all’inferno con la mia chiave conficcata nello stomaco.

Lo sento rantolare ancora quell’animale. Il suo puzzo acido di piscio, di merda e il suo sangue tra le dita.

Nessun mistico profumo d’armadillo.

 

Dottore, credo che lei abbia una cosa lì sulla fronte, in mezzo agli occhi. Non si agiti, va tutto bene.

Mi lasci guardare da vicino, la prego. Da qui sembra che lei abbia proprio una bella serratura.

 

Un racconto di Emilia Bifano

Illustrazione di Marco Pellino

Emilia Bifano

Emilia nasce in terra calabra, poi attraversa lo stivale e si trasferisce a Torino. È sempre la Social Media Qualcosa della situazione. Da grande vorrebbe vivere in un paese delle meraviglie disegnato da Miyazaki e prodotto da Tim Burton, dove l'unico cibo conosciuto è la torta al cioccolato.

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