A short and winding road

Lo vedeva.

Gli occhi scuri, profondi come il pozzo nel campo dietro la baracca di suo padre; i capelli lunghi e stopposi, più chiari dei suoi, ma non meno sporchi; le braccia sottili, consumate dalle serate passate a giocare in mezzo alle sterpaglie, a tagliare le code delle lucertole o a dare scappellotti ai muli; le gambe rachitiche e bruciate dal sole, che lo mantenevano in piedi grazie alla sua energia di bambino. Perché cibo non ne avrebbe avuto, come non ne aveva avuto lui.

Suo figlio.

Però Davide avrebbe voluto fargli tanti regali. Avrebbe costruito una fionda, come quella che gli aveva dato suo padre per ammazzare le galline di quegli sbronzi dei vicini: due pezzi di legno marcio, un paio di stanghe di ferro per rinforzarli e un elastico, forse di un paio di mutande, per sparare i sassi aguzzi che costellano la campagna. Ci aveva fracassato la testa di dozzine di polli, con quei cosi. Un paio li avevano anche mangiati, e con le ossa Davide si era fabbricato un piccolo teatrino, mentre con le zampe era sceso fino al mare per pescare i polpi. Quella volta ne prese un paio poi, sbronzo di gioia, corse fino a casa per farli vedere al padre.

“Come li hai presi?”

“Con le zampe di gallina, papà”

“Chi ti ha insegnato?”

“Franco”

“Chi?”

“Turetta”

“Quel cornuto…e le zampe?”

“Cosa, papà?”

“Da chi le hai avute?”

“Le ho prese da quella gallina che abbiamo ammazzato settimana scorsa, papà”

“Con la mia fionda”

“Sì, papà”

A quel punto prese i polpi e li usò per schiaffeggiarlo finché non ebbe le guance rosse. Poi ne cucinò uno, lasciando a Davide qualche piccolo tentacolo, prima di scendere in paese a barattare l’altro polpo, il più grosso, con una bottiglia di grappa distillata in casa.

Quella fionda era l’unica cosa che Davide ricordasse di aver mai ricevuto.

Sua madre era morta poche settimane dopo averlo partorito. Aveva cercato di mungere un mulo, e questo le aveva assestato un calcio in piena testa. Lo zoccolo le aveva sfondato una tempia, facendole quasi schizzare l’occhio fuori dall’orbita.

In paese si mormorava che l’idiozia di Gianna fosse conseguenza di un’endogamia congenita in una famiglia che non aveva mai lasciato quello sputo di paese diviso tra montagna e mare. Era anche il motivo per cui avevano avuto un figlio deficiente, che non sapeva distinguere la destra dalla sinistra quando attraversava la strada e che non riusciva a mai a capire quale fosse la strada giusta per tornare a casa.

I bambini, a scuola, sfottevano Davide.

“Mongolo!”

“Checca lustrapalle!”

“Ti scoperai tua sorella come ha fatto tuo padre?”

“È un frocio di merda, si scoperà il fratello!”

“Ma non ne ha! Si sbatterà la madre!”.

“Non ha neanche quella!” E giù risate.

Lui non rispondeva. Durante le ore di ginnastica gli altri bambini si divertivano ad abbassargli le brache in mezzo al campetto, oppure a imbottirgli le mutande di foglie d’ortica, o a strizzargli le palle. Davide non capiva.

Mentre gli altri spiavano le compagne che si cambiavano, toccandosi il pisello a vicenda fuori dallo spogliatoio della scuola, lui era lontano, magari in mezzo al campo, a raccogliere la palla sgonfia che gli avevano lanciato. Non aveva una direzione. Ragazze e ragazzi stavano ai lati opposti di una lunga strada, che nessuno gli aveva insegnato ad affrontare.

Finite le elementari, il padre lo aveva spedito a lavorare nei campi a tempo pieno. I loro terreni erano poco meno che sterili, davano appena di che vivere e quel poco che avanzava veniva venduto al mercato del paese o scambiato con qualche bottiglia di grappa fatta in cantina.

La loro casa aveva solo un paio di stanze: la cucina e la camera da letto del padre, nuda e fredda. Quando ci portava una donna, molle e pesante come la pioggia autunnale o rachitica come la legna da uva, il ragazzo doveva dormire nella stalla: una baracca di pietre e sterpaglie a qualche decina di metri dalla casa. Non sapeva accendere un fuoco e d’inverno sentiva le ossa stridere dal gelo.

Nessuno aveva spiegato a Davide i misteri del sesso, o gli aveva mai mostrato la giusta direzione del sentiero che porta dalla fica al buco del culo. Non sapeva che ci potessero essere alternative, che le due mete verso cui quel percorso conduceva fossero tanto diverse. Curioso e arrapato come ogni altro adolescente, aveva eletto i pochi animali della stalla a suoi amanti. Ogni tanto scroccava un goccio di sbornia al padre, prima di rinchiudersi nella stalla per sbattersi ciò che capitava; la sua preferita era l’asina, Ghitta, la figlia del mulo che aveva ucciso sua madre.

Una volta, doveva avere 14 anni, suo padre aveva sentito i ragli della bestia e, ubriaco, li aveva sorpresi nella stalla. Davide però non si era fermato, e aveva continuato a scopare l’animale finché una bottiglia vuota di grappa non gli era piovuta in mezzo agli occhi. A quel punto, una schioppettata aveva fatto saltare la testa di Ghitta e la festa era finita.

Davide era solitario e taciturno. I vecchi compagni di scuola lavoravano campi più belli, si ubriacavano in compagnia, scopavano ragazze calde e vive e le picchiavano quando tornavano dall’osteria. Davide parlava solo con gli animali.

Si allontanava sempre di più per seguirli. Vedeva gli altri portarsi i piccoli appena nati all’osteria e non arrivava a chiedersi perché a lui quella gioia fosse preclusa. Non capiva.

Vedeva suo figlio per la prima volta, quando Turetta lo sorprese con una delle sue pecore.

A differenza del padre, picchiò la pecora e fece saltare la testa al ragazzo.

Neanche lui aveva capito.

 

Un racconto di Luca Bianco

Illustrazione di Matteo Perdon

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