Renée

Non ho mai conosciuto Renée.

Dicevano fosse magra e piccola di statura, con una fronte così rugosa che non si toglieva mai il cappello.

«Però aspetta, non è per vergogna. Non è per quello che non si toglie mai il cappello», mi disse a proposito un vecchio clochard, col naso aquilino e la barba a beccuccio, che a quanto pare l’aveva conosciuta anche bene. «È che alcuni particolari sono molto personali. Privati. E preziosi. Come certi pensieri, che in tanti si scordano di custodire». E me lo disse con gli occhi ancora vispi, e un sorrisetto fugace e malinconico che lo fece sembrare un po’ meno barbone e più un uomo ricco di passato. Se ne stava da anni in quell’angolo vicino alla piazza, con la sua tela vuota e un set di pennelli incrostati. Ogni volta che lo incontravo mi parlava di Renée, delle sue stravaganze e delle sue fissazioni a proposito della discrezione. Da lui imparai che era molto severa su ciò che la gente svelava di se stessa, come la peluria che affiorava dai polsini, o una semplice nuca scoperta. «Nuda», precisava, come un pube capovolto, e come quello altrettanto misteriosa e vulnerabile, poiché direttamente attaccata al cervello di un uomo. «Al cervelletto», il vero posto dei sogni, delle paure e degli orgasmi.

«Ricordatelo questo, se ti capita di incontrarla. Controllati le maniche e mettiti un dolcevita. Per lei valgono quanto le mutande».

Con le giuste accortezze le si poteva parlare dei propri sogni, e lei sapeva sempre decifrare se quei sogni fossero fantasie, ambizioni, nostalgie o necessità. Se persuasa, li metteva in lista, e al resto ci pensava lei. In tanti ci speravano, in tanti ci credevano. E quindi l’aspettavano come si fa con le preghiere ai santi o con le stelle ad agosto, fiduciosi che la misteriosa signora con il cappello potesse realmente migliorare le loro vite. Peccato che non fosse per niente facile, né valevano certe scorciatoie di provincia. Quella di Renée era una lista per pochi, anche se non si capiva per chi.

«A me m’ha giudicato per questi», mi confidò un barista, indicandosi lo sterno. Notai i suoi peli vorticosi simili a stelle vangoghiane, che sconfinavano avidi fino all’aguzzo pomo d’Adamo. «Ne avrei fatte di cose, se m’avesse inserito», e continuava a lucidare i bicchieri, col panno umido e lo sguardo asciutto. Però, quando gli chiesi cosa avrebbe fatto, lo vidi un po’ incerto:

«Stare meglio», disse, «come tutti».

«Meglio di che?»

«Meglio».

Forse era stata quella, non la peluria, quell’esitazione, quella vaga insoddisfazione, a farle cambiare idea.

«E pensi veramente sia stata colpa dei peli?»

«Chiedilo a lei, semmai ti capita questa fortuna. Chiedile che ci azzeccano i peli con i sogni. Chiedile il perché. Ma tanto lo sanno tutti che è schizzinosa. M’avesse almeno guardato in faccia».

 

Non ho mai conosciuto Renée, ma Renée ha conosciuto me. Mi ricordo che alla mostra di Toulouse-Lautrec me ne stavo a fissare la nuca di una donna dipinta di spalle, mentre gli altri le fissavano il sedere. Era una nuca così nuda, al contrario della mia, chiusa in un colletto che non mi faceva respirare. E sarà perché sudavo, o forse un po’ perché in realtà piangevo, ma iniziai a bagnarmi abbondantemente lungo il collo.

Non ci vuole arte per decifrare gli sguardi. Tutto questo parlare di occhi e anima sopravvaluta il giudizio sulle persone.

Renée ci giudicava dalle nuche o dai polsini, dalla capacità di celare o meno la nostra notte stellata. Nemmeno ci giudicava, in realtà. Ci conosceva. E ci regalava occasioni.

La mia nuca, come la nuca dipinta da Toulouse-Lautrec, avrebbe parlato molto di più di quanto avrebbe dissimulato il mio viso, come forse le sue rughe sulla fronte, simili ai sentieri sulle mappe, al calco di segreti antichi. Non è mica facile celare quei dettagli a lungo, risparmiarsi, mettersi da parte un po’ per volta, come gli spiccioli, farsi bastare. Preferire il riserbo alla prostituzione di un sogno, solo per farsi trovare.

Sentii un lieve e sottile tamponare lungo il collo, per nulla frugale, ma accurato e gentile. La stoffa di un fazzoletto, o forse di un foulard, arrivò sino alla collottola, all’osso occipitale, quello a forma di conchiglia, sul cervelletto, sui miei sogni, sulle mie paure, sulla mia vergogna, sulla mia nudità. Nel voltarmi, urtai involontariamente il gomito di un uomo, che indietreggiò prima ancora che potessi chiedergli scusa. Forse quel suo indietreggiare l’aveva eclissata, perché quando mi voltai mi parve che non c’era. Non vidi nessuna signora minuta e con il cappello. Neanche un pezzo di carta, un appunto, un elenco o chissà che.

 

Non ho mai conosciuto Renée. Ma posso dire con assoluta certezza che quel giorno era dietro di me e non fu affatto schizzinosa, perché aveva tamponato, asciugandola, tutta la mia tristezza.

 

Un racconto di Lucia Perrucci

Illustrazione di Maria Caruso

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