Una piccola distrazione

Siamo io e mio padre.

Ogni mattina, da quattro giorni, prendiamo il sentiero tra gli alberi, dopo colazione incespichiamo sulle foglie morte. Lui non va al lavoro, io non vado a scuola, l’odore del mattino è quello della pioggia. Camminiamo senza parlare, tagliamo le ragnatele con il viso, siamo i primi a passare di qua, ogni mattina.
Raggiungiamo il lago, mio padre appoggia il cestino e monta la canna. Il cestino è di plastica, ma sembra fatto di vimini intrecciato; la canna è di carbonio, leggera, e ogni tanto brilla.
Lo osservo fare queste cose in silenzio. Solo quando ha finito ricambia il mio sguardo.

Quando facciamo colazione, la donna – che è robusta, ma meno grassa di mia madre – non c’è ancora. Mio padre beve una tazza di caffè e insiste che io mangi, perché anche questa sarà una giornata lunga. Lui non mangia nulla, non gli piace mangiare al mattino e ogni giorno spera che mangerà davvero la sera.
Mangiare davvero significa mangiare quello che ha pescato.

Quando mio padre finisce di montare la canna e mi guarda, gli passo la lenza e l’amo e i piombi. Sta tutto nello scomparto superiore del cestino, insieme alla scatola delle camole. È uno scomparto piccolo ma ordinato. Prendo la scatola, la tengo in mano.
Nel lago, si formano piccoli cerchi quando le trote salgono in superficie per mangiare. Gli insetti ronzano bassi, sfiorano l’acqua e vengono mangiati.
Mio padre monta il mulinello, fa passare la lenza negli anelli della canna, usa un paio di piccole pinze – hanno l’impugnatura in gomma ruvida, e blu, che accarezzo con la punta delle dita quando gliele passo – e fissa i piombi e il galleggiante e l’amo. Poi gli allungo la scatola.
Dagli abeti che crescono intorno al lago viene l’odore della resina. Il primo giorno ho toccato quella che colava da un taglio nella corteccia e ho dovuto lavarmi la mano nel lago. Ho spaventato i pesci ma l’odore mi è rimasto addosso. L’odore della resina e quello dell’acqua – alghe, limo e pesci morti.
Le camole si rotolano nella segatura, indolenti e grasse.
«Non hanno nervi» ha detto mio padre il primo giorno. «Non sentono dolore».
Hanno anche lo stesso colore della segatura, tranne per la testa bruna, e sembra che stiano per esplodere da un momento all’altro, come se fossero malate e gonfie.
Mio padre ne infilza una con la punta dell’amo. Continua a contorcersi come faceva prima. L’amo ha un uncino più piccolo sull’estremità appuntita, in modo che il pesce non possa più liberarsi.
Ma alcuni pesci sono intelligenti, o fortunati, e riescono a mangiare la larva senza nemmeno ferirsi.

La sera ceniamo con pane nero e minestra d’orzo. A un certo punto, la donna si siede al tavolo con noi e parla con mio padre.
«E la mamma dov’è?» ha chiesto la seconda sera.
«La mamma non è venuta» ha risposto lui. «Siamo in vacanza».
«Ti stai divertendo?» ha chiesto a me.
Ho annuito. «Molto» ha detto mio padre, «grazie».
La donna ha raccontato che il tavolo e la panca e tutti i mobili della casa sono fatti con il legno degli alberi intorno al lago. Ho pensato che non era vero, che l’odore era diverso e che sulle mani non mi restava appiccicato niente.
Sono andato a guardare la televisione, mentre mio padre è rimasto ad ascoltare il resto della storia e a bere un caffè e un bicchiere di grappa. Non la beve, a casa.

Ruota il busto più indietro che può e scatta come se volesse spezzarsi e il galleggiante e l’amo e la camola schizzano verso il centro del lago, poi si siede su un sasso e poi non succede niente.
Seduto di fianco a lui, sorveglio il galleggiante, la punta arancione che spunta dall’acqua. Aspettiamo insieme di vederla scomparire.
«Bisogna solo farci l’abitudine» ha detto la donna ieri sera.
«Però sono tre giorni che non abboccano» ha risposto mio padre, mentre con il pane puliva il piatto della zuppa e la guardava.
«Prima o poi succede» ha detto lei. «Ti porto la grappa?» ha chiesto.
Mio padre ha annuito.
«E tu vuoi qualcosa?».
Ho scosso la testa e mio padre ha detto: «Se vuoi, puoi andare».
Se il galleggiante non affonda, mio padre riavvolge un poco il mulinello e riprende a fissare l’acqua e ogni tanto sbadiglia o si gratta la pancia.

La scatola delle larve è appoggiata sul cestino. La prendo, cerco di sentire i movimenti al suo interno, guardo per un’ultima volta il galleggiante e mi alzo senza fare rumore. Mio padre è troppo concentrato, oppure si sta addormentando, e mi allontano dal lago, verso gli abeti. L’umidità ancora si alza dal terreno – sulle radici ci sono chiazze di muschio, sui tronchi licheni argentati. Dietro di me, mio padre non ha cambiato posizione.
Metto la scatola in equilibrio sul tronco caduto e svito il tappo. Sono ancora lì, non si sono accorte che una di loro è finita infilzata sull’amo. Ne prendo una tra pollice e indice, la strizzo un po’, la testa bruna si alza e ruota, come se si guardasse intorno, curiosa. La porto proprio davanti agli occhi. Da sotto la testa, si distendono le minuscole zampe. È brutta.

La donna ha chiesto a mio padre quanto ci fermeremo.
«Finché vogliamo» ha risposto lui. «Finché la situazione non cambia».
«Finché vi trovate bene» ha detto lei, «a me fa piacere».
Ho passato la mano sulla panca, sul legno caldo e secco e morto. Ho appoggiato la guancia sul tavolo e gli unici odori erano quelli della cena e della donna. Ho chiuso gli occhi e, solo per un secondo, ho sentito di nuovo quello della resina e sono tornato nel bosco.

Sono lì con la bocca aperta e la camola che si muove sulla lingua, quando mio padre urla: «Ha abboccato!».
È una trota piccola, di quelle che andrebbero ributtate nel lago. Mio padre, però, la sbatte contro il sasso fino a quando non smette di muoversi, poi infila il dito nella branchia e me la fa penzolare davanti. Lui sorride, io deglutisco.

Ogni sera torniamo sui nostri passi, da quattro giorni, prima che i ragni tessano le loro tele, con la testa bassa e il cestino vuoto. Ogni sera, ma questa sera è diverso.

 

Un racconto di Alessio Posar
Illustrazione di Annachiara Vivi

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