Destino in formaldeide

Erano passati almeno sessant’anni dalla prima volta che lo aveva visto. Mentre frugava tra i cassetti del seminterrato, ancora pervaso dall’odore di formaldeide, cercò di pensare al momento preciso, ma non riusciva a farlo riaffiorare. Probabilmente si trattava di un giorno qualunque. In quel periodo andava al lago quasi tutte le sere. Aveva cominciato a fare quel giro per caso e in breve tempo lo aveva reso parte integrante della sua routine quotidiana.

Era il suo modo di resettare la giornata, di sciacquare via la fatica. All’inizio cambiava spesso percorso, per cercare un posto da poter considerare suo. Non ci aveva impiegato molto. Lungo la riva nord del lago aveva trovato uno spiazzo raggiungibile solo abbandonando il sentiero, con un masso piatto a pochi metri dall’acqua. Appena il sole cominciava a calare partiva da casa, arrivava nel suo angolo, sedeva per dieci minuti esatti a osservare il tramonto e quindi tornava indietro. La sensazione di immobilità che gli trasmetteva quel luogo era insostituibile. Gli sembrava di poter percepire il momento in cui il mondo, come lui, si prendeva un momento di pausa e limitava al minimo ogni movimento. Perfino il vento sembrava fermarsi e, se era troppo presto perché gli animali notturni uscissero allo scoperto, quelli diurni erano già tornati alle proprie tane. Un momento sottovuoto. Poi, da un giorno all’altro, era comparso quel fastidioso ammasso di piume bianche.

Aprendo l’ennesimo cassetto finalmente trovò la scatola di latta. Mentre la estraeva il contenuto cominciò a rotolare al suo interno, tintinnando contro il metallo. Quando si sedette al tavolo da lavoro rimosse il coperchio e cominciò a cercare tra le sfere di vetro ammucchiate dentro. Ne prese due, nere, grandi circa quanto un bottone. Le esaminò entrambe sotto la luce della lampada, per assicurarsi che non avessero imperfezioni, quindi decise che sarebbero andate bene. Quell’ultima fase del lavoro era la più delicata. Tutto dipendeva dagli occhi.

Lo aveva odiato dal primo momento. In effetti gli animali in generale lo infastidivano, da sempre. Non era mai riuscito a capire il desiderio di tante persone di avere accanto un saltellante e rumoroso sacco di pelo. Meglio: comprendeva il valore estetico di un cane di razza, per esempio, e anche lui rimaneva affascinato dall’eleganza delle linee di tanti animali, ma tollerare quella quantità di rumori e movimenti inutili per più di qualche ora gli risultava impensabile. D’altronde nemmeno lui sembrava andare molto a genio alle bestie, dato che, nella maggior parte dei casi, erano le prime a stargli alla larga. Era dall’unione di questi due pensieri che era nata la sua passione.

Nonostante tutto fino a quel momento la sua insofferenza verso gli animali era sempre sparita non appena veniva meno il diretto contatto con loro. Per le creature più silenziose pochi metri di distanza erano sufficienti a garantire una convivenza tranquilla. Con il pennuto, invece, la situazione cambiava. Da quella prima volta aveva increspato la superfice del suo lago, turbando la perfezione degli unici dieci minuti che considerava suoi, in ogni sera importante. Sembrava che percepisse quando il suo bisogno di quiete era più forte e si presentasse con l’unico scopo di infrangere l’immobilità che cercava. Più di una volta era stato sicuro di averlo visto sogghignare. Sapeva che era impossibile, ma l’idea lo mandava comunque in bestia.

Aveva provato a scacciarlo in ogni modo. Sassi e urla si erano rivelati inefficaci. Quel maledetto cigno si limitava a spostarsi verso il centro del lago e a osservarlo da lì, al sicuro. Le trappole erano sempre rimaste vuote e nemmeno la ricerca del nido aveva mai dato frutti. Era arrivato a convincersi che l’animale esistesse solo nel lasso di tempo in cui lo poteva infastidire.

Il vero problema, tuttavia, era quando si presentava nelle sere in cui non aveva programmato nessun evento. In quei casi si metteva subito in allarme, perché era certo che l’indomani sarebbe successo qualcosa di imprevisto e di importante, molto spesso in senso negativo. In quelle occasioni, tornato a casa non chiudeva occhio, sicuro di essere già in ritardo per riuscire a rimediare. Nel corso degli anni il pennuto gli aveva annunciato, con una sera di anticipo, ogni tipo di disgrazia, a partire dalla morte di suo padre. Il senso di impotenza che provava in quei momenti era davvero insopportabile.

Un’unica volta l’animale gli aveva concesso un indizio, presentandosi in compagnia di un suo simile. Era stata la sola notte in cui era riuscito ad addormentarsi senza problemi. Con un suggerimento così palese poteva mettersi in guardia e agire di conseguenza. Inoltre, se mai aveva avuto una certezza, era proprio quella di non aver bisogno di nessuno. L’idea di permettere a qualcuno di rimanergli costantemente accanto era assurda. Stavolta il volatile aveva fatto male i suoi conti, non si sarebbe lasciato fregare ancora, bastava a sé stesso e in questo non sarebbe mai cambiato. Infatti il giorno dopo aveva conosciuto la donna che in breve tempo sarebbe diventata sua moglie. Lo odiava davvero, quel cigno. Per questo doveva trovarselo davanti per l’ultima volta.

Quando passò nella stanza adiacente, la bestiaccia sembrava ancora viva. Le penne avevano nascosto la cucitura e il becco pareva atteggiato a quella specie di ghigno che tante volte gli era parso di vedere. In realtà dell’animale restava ben poco, oltre al cranio e al piumaggio, ma l’unica differenza visibile erano le orbite, vuote. Si prese tutto il tempo necessario. La misura delle biglie era giusta. Quando anche gli occhi furono al loro posto l’illusione fu completa. Con il tempo anche l’odore di formaldeide si sarebbe attenuato, perfezionandola ancora di più.

Non aveva cantato, quando era morto. Era semplicemente stramazzato a terra. Dopo averlo perseguitato per tutta la sua vita, alla fine si era soltanto fermato. Lo aveva preso per un buon segno. Fissò a lungo i resti mummificati e messi in posa del volatile, poi se lo lasciò alle spalle. Per l’ultima volta si incamminò sul suo sentiero, sicuro che nulla, quella sera, lo avrebbe disturbato. Per la prima volta, da quando aveva cominciato ad andarci, il lago sarebbe stato veramente immobile.

Illustrazione di Ilaria Bressan

Stefano Rigoni

Stefano nasce a Parma il due maggio del 1992, l’esatto giorno previsto dai medici, e quella sarà l’ultima volta in cui si presenterà puntuale ad un appuntamento. Frequenta il liceo classico, dove i professori affermano che le sue traduzioni non rispecchiano per nulla l’originale, ma almeno sono piacevoli da leggere.

Lascia un commento