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Zolfo

Entrò nella stanza senza che si sentisse rumore di chiavi e rimase a lungo sulla soglia, in silenzio, guardando dentro il buio come guardano i gatti e fiutando l’aria come se potesse distinguere, nell’oscurità, la presenza dell’altro uomo dall’odore. Vide prima le sagome del letto e di un piccolo tavolo, anzi, le indovinò, perché sapeva come le cose erano disposte nelle locande: il letto sulla parete di fronte alla porta, il bugliolo in terra, accanto al tavolo sovrastato da un vecchio crocifisso di legno. Il piccolo cono di luce che entrava dalla soglia illuminò il grande armadio, che era stato trascinato contro la finestra e la tappava.

«Dove siete?» domandò, ma sottovoce, come se non fosse ancora tempo di farsi sentire.

Gli rispose un silenzio, ma le sue orecchie erano ben allenate, e capì che qualcuno, nell’angolo in fondo, aveva tirato un leggero sospiro che forse era di paura. Avanzò di un passo dentro la stanza facendo cricchiare le assi del pavimento; la ferraglia che portava appesa alla cintura tintinnò, ed egli pensò che quel rumore aveva forse rivelato all’uomo il suo mestiere.

«Vi cerco per parlare» disse allora, come a gettare nel buio un’assicurazione. In risposta gli arrivò, dall’angolo, un respiro respirato controvoglia, e trattenuto male.

Fece un altro passo, si diede lo spazio per chiudersi la porta dietro le spalle.

«Vedete?» disse, alzando le mani nel vuoto. «Ho chiuso la porta. Siamo io e voi. Voi sapete il punto esatto dove mi trovo, i vostri occhi sono più abituati dei miei a questa oscurità: siete in vantaggio».

Gli venne al naso l’odore del legno, e quello spiacevole del bugliolo. Gli parve di vedere, abbandonate ai piedi del letto, delle fasce, o dei pezzi di stoffa, da cui veniva l’odore acido e pure intenso dell’aceto.

Avanzò di un altro passo, e di nuovo la ferraglia risuonò. La fermò con la mano, sentendosi in difetto, poi chiese: «Posso sedermi?»

Dall’angolo non giunse risposta, così si avvicinò al tavolo – l’odore dell’aceto, mescolato ai fumi del bugliolo, gli fece bruciare gli occhi – afferrò la sedia e la portò nel centro della stanza.

«Siete seduto per terra» disse, «nell’angolo a lato del letto. Non vi vedo, probabilmente siete avvolto nel vostro mantello e vi schiacciate contro il muro. Ma vi sento: dovreste sapere bene che il corpo umano ha molti modi per rivelare la sua presenza, anche quando non vuole. Inoltre, l’oste mi ha detto che siete chiuso qui dentro da due giorni, e non avete comandato da mangiare né da bere»

Si frugò nella tasca della giacca, ne trasse un pezzo di pane nero e lo lanciò nell’angolo.

«Mangiate» disse. «Posso farvi portare del vino ma, perché io lo possa chiedere, dovete parlare e dirmi che lo volete».

Capì che l’uomo nell’angolo, con gesti lenti, avvicinava la mano al pezzo di pane.

«È buio qui dentro, e l’aria è viziata» continuò. Si massaggiò gli occhi, forse per via del bruciore o, forse, per aiutarli a vedere meglio. Poi disse: «Non sono venuto per trarvi in arresto: avete la mia parola che, dopo che avremo parlato, io mi alzerò da questa sedia, uscirò da questa stanza, ordinerò del vino e farò soltanto ciò che voi vorrete».

La mano aveva afferrato il pane, e l’uomo sentì provenire, dall’angolo, il rumore piccolo della masticazione.

«Mangiate» disse, «è giusto: dovete rimettervi in forze».

Di nuovo infilò una mano nella tasca e vi trasse una piccola scatola, la aprì, prese tra le dita uno zolfanello e lo sfregò sulla suola della scarpa. La fiamma mise nel buio della stanza una piccola luce.

«No!» gridò l’uomo seduto nell’angolo.

Quasi spaventato dal grido, l’uomo seduto sulla sedia soffiò sullo zolfanello e lo spense. Nell’aria si diffuse l’odore del fumo, che per un momento coprì quello del bugliolo.

«Dunque avevo ragione:» disse, «tenete il volto coperto dal mantello. Ma io so chi siete, anche se non vi ho mai visto. Liberatevi di quell’impiccio, parlate con me. Del resto, vi siete tradito: il vostro proposito di non rivolgermi la parola è fallito, e per uno zolfanello».

Nel buio, a cui i suoi occhi ormai si stavano abituando, l’uomo sulla sedia vide che l’uomo nell’angolo si toglieva il mantello e lo lasciava cadere per terra.

«Vengo per i fatti dell’altra notte, davanti alla Locanda del Cerriglio» disse. «C’è stata una rissa, è stato fatto il vostro nome. Non vi agitate: so che siete la vittima».

«Siete un gendarme?» domandò, dall’angolo, una voce che masticava.

«Non lo sono: è soltanto il mio mestiere».

«Che cosa siete venuto a fare, se non volete arrestarmi?» domandò ancora la voce, che aveva inghiottito e adesso era pulita.

«Vengo per conto della famiglia Colonna: da due giorni, ricevuta la notizia della zuffa, vi cercano, e vi domandano di presentarvi a Palazzo, dove riceverete le cure e la protezione di cui avete bisogno».

L’uomo nell’angolo ricominciò a masticare il pane, mugugnando e schioccando la lingua.

«Non ho bisogno di cure» disse poi. «Non appena vi sarete di nuovo avvicinato alla porta, vi chiederò di portare ai miei benefattori una lettera che ho scritto per loro e che non ho modo di recapitare».

«Sono preoccupati per voi».

«Nella lettera li ringrazio anche di questo, ma non posso uscire da qui».

«Sarete accolto e accudito».

«Essi mi cercano. Qui sono al sicuro».

«Chi vi cerca?»

«I maltesi: ormai sapranno che non sto più al Cerriglio».

«Erano dunque maltesi? Che cosa vi hanno fatto?»

Nel buio, l’uomo nell’angolo fece con la mano un gesto come a dire Non importa. Il gendarme capì che adesso si stava guardando le mani, e lo sentì che diceva:

«Qualunque cosa mi abbiano fatto, non hanno rovinato queste. Tutto mi può essere tolto da chi mi vuol male: i piedi, le orecchie, perfino un occhio, anzi, sarei io stesso disposto a donare pezzetti del mio corpo in cambio della libertà. Ma queste no, le mani no: le mani mie devono restare dove sono e come sono».

«Che vi hanno fatto?» ripeté il gendarme, ma la domanda si perse nel nulla.

«È per le mie mani che io scappo, che sono in fuga da sempre: dalla Lombardia, da Roma, da Malta. Ovunque vada, ho dei nemici, persone del luogo o del passato che mi vogliono male. Scapperò di nuovo anche da Napoli, benché io non sappia dove, oggi, potrei trovare quella pace che cerco e che sempre mi sfugge».

«Le vostre mani hanno ucciso: è per questo che non trovate la pace».

L’uomo nell’angolo, adesso, teneva le mani alte contro il volto:

«Sì, ho ucciso» disse. «Ci credereste? Queste mani tozze, che sembrano attrezzi da mastro ferraio, strumenti nati per cesellare, piegare metalli e stare in bottega, sanno infliggere colpi mortali».

«Le vostre mani sanno anche rendere gloria a Dio» disse il gendarme. Nell’angolo, il corpo dell’uomo si mosse come se fosse scosso da un sussulto. «Lasciate che le veda, Maestro» continuò il gendarme, e senza attendere una risposta sfregò un altro zolfanello sulla suola.

«No!, vi ho detto» gridò di nuovo l’uomo che era stato chiamato Maestro, lanciando il tozzo di pane nel vuoto della stanza. «Non voglio che vediate il mio volto».

«Ho veduto la vostra Madonna della Misericordia e, in San Domenico, la Flagellazione» rispose il gendarme. Voltandosi di un poco, illuminò una porzione di pavimento, quindi si alzò, si chinò sulla fetta di pane mezza mangiata e la ributtò nell’angolo. «Voglio vedere le mani che le hanno dipinte» disse ancora, ma lo disse mentre, con un soffio, spegneva la fiamma.

«Sono mani rozze, volgari: vi deluderebbero» rispose l’uomo nell’angolo. «Con queste dita storte si può rimestare la zuppa, o tirare pugni».

«Avete dipinto Cristo, e la Madonna, avete dato luce agli angeli e agli assetati, ai vecchi e ai pellegrini: voi non rimestate zuppe» rispose il gendarme. Appoggiò le mani sulle ginocchia, si sporse in avanti verso il suo interlocutore: «Che cosa siete voi?» chiese. «Un vagabondo? Un balordo? O siete colui che mette la luce dentro al buio?»

«Ah!» rise l’uomo dal fondo. «Conosco qualcuno che direbbe che io metto il buio intorno alla luce, sapete? Qualcuno che sostiene che io mi sia venduto al diavolo perché metto Maria dentro il corpo delle annegate, perché rendo umani i volti degli angeli e perché i miei Cristi hanno i corpi dei peccatori».

L’uomo sulla sedia rimase in silenzio a lungo, come se pensasse.

«Quello che dite non è vero:» disse poi, «avete lavorato a Roma, e per i domenicani; vi hanno protetto e vi proteggono uomini devoti. Essi dicono: “Egli è un intagliatore di luce”, e pregano in ginocchio davanti a quei Cristi che voi stesso sembrate disprezzare».

Gli rispose un silenzio. Ma poi l’uomo nell’angolo si mosse:

«Voi non siete un gendarme» disse, «non ne avete la voce. Nessun Colonna vi ha mandato da me. Chi siete?»

«Sono qualcuno che vuole trarvi in salvo. Non importa quale sia il mio mestiere, o se ne abbia uno».

«Ditemi perché debbo fidarmi di voi».

«Perché vi siete fidato di molte persone che vi hanno fatto del male, Maestro. Fidatevi di qualcuno che vi vuole aiutare, e levatevi da questa stanza piena di buio e di odore».

«Preferisco il buio all’assenza di colore di questa locanda. Il buio mi protegge».

«Io vi ho trovato» rispose l’uomo che forse non era un gendarme, «e non ci è voluto poi molto. Come vi ho trovato io, vi troveranno i maltesi, o chiunque vi stia cercando per chiudere i conti con voi». Allungò una mano nel vuoto: «Venite con me: vi posso fornire un salvacondotto». La mano rimase sospesa come quella di un penitente mentre, nell’angolo, l’uomo non si muoveva e, anzi, aveva finito il suo pane e non masticava nemmeno più.

«Ho sete» disse soltanto.

«Venite con me».

«Non posso essere sicuro che non mi conduciate alla Vicaria, o addirittura dai nemici miei».

L’uomo che forse non era un gendarme si alzò, lasciando che la sua ferraglia colpisse la gamba: «Da molto tempo sono qui con voi» disse. «Pensate forse che non vi avrei acciuffato, se l’avessi voluto?»

«Nessuno acciuffa da solo un assassino».

«Io non sono venuto a trovare un assassino, ma l’uomo di cui ho visto la Flagellazione e la Misericordia» rispose l’uomo che forse non era un gendarme. «Com’è possibile che la persona che ha dipinto la Misericordia sia lo stesso uomo che mi trovo qui di fronte, avvolto di buio, affamato, perso nel suo stesso odore?»

Dall’angolo arrivò il rumore di un corpo che si solleva: l’uomo che forse non era un gendarme lo ascoltò, e un’inquietudine gli attraversò il volto. Una volta in piedi, l’uomo nell’angolo fu preso da un accesso di tosse: a lungo sputò e scatarrò sul pavimento. Poi, pulendosi la bocca con un lembo del mantello, si mise dritto.

«Accendete» disse, e la sua voce, dopo l’accesso, era un filo. «Accendete e avvicinatevi».

L’uomo che forse non era un gendarme trovò la scatola degli zolfanelli, ne accese uno sulla spalliera della sedia e lo sollevò nel vuoto.

«Eccomi, guardate» disse ancora l’uomo.

L’uomo che forse non era un gendarme avvicinò la fiamma al volto dell’uomo: i capelli erano schiacciati sulla fronte, ed egli mandava uno sguardo acquoso, vago; chiuse gli occhi alcune volte, come se non sopportasse la luce della fiamma da vicino, e l’uomo con lo zolfanello vide, dietro la barba già un po’ imbiancata, un lungo squarcio che dall’occhio sinistro attraversava la guancia e quasi arrivava al mento.

«Che vi hanno fatto?» domandò.

Dalla ferita ancora aperta usciva odore di sangue e aceto. L’uomo allargò le braccia come fanno i preti, e disse:

«Chi vi sembro, adesso? Un balordo o un Cristo?»

L’uomo che forse non era un gendarme tacque. Guardava il volto spaccato dell’altro uomo e non aveva più parole.

«Indossate una veste fina» disse l’uomo che era stato chiamato Maestro, «e solo ora mi rendo conto che non parlate il napoletano».

Allungò una mano fino a toccare quella dell’uomo che reggeva il fiammifero: «Lasciate che io veda i vostri stemmi» disse.

Premette sulla mano che reggeva il fiammifero e l’abbassò fino a illuminare il petto dell’uomo che sicuramente non era un gendarme, e ciò che vi vide impresso fu, seminascosto da una grande croce dorata, lo stemma di papa Paolo V. L’uomo che si era alzato fece un balzo indietro, tornando ad avvolgersi di buio.

«Venite da Roma!» urlò, e all’urlo seguì una bestemmia.

L’uomo che non era un gendarme lo sentì che spostava le coperte del letto. Nella concitazione, l’uomo che aveva fatto un balzo indietro urtò il bugliolo, che si rovesciò sulle assi del pavimento spargendo i liquami di due giorni e impestando la stanza. L’uomo che veniva da Roma gettò per terra lo zolfanello che si era spento e ne accese in fretta un altro: così vide davanti a sé la mano dello sfregiato che gli puntava un pugnale. Sollevò allora lo zolfanello e volle guardare di nuovo il volto del Maestro: folle di sete e di paura, egli spalancava gli occhi e agguantava l’aria appestata con la bocca. Dentro lo squarcio, l’uomo che veniva da Roma vide ribollire il sangue, e pensò che adesso il Maestro aveva non uno, ma due volti, separati dalla ferita. Si domandò, e fu un secondo, se un volto fosse lo specchio della bellezza e l’altro fosse quello dell’assassinio, e si chiese quale fosse uno e quale l’altro. Ma l’uomo che reggeva il pugnale, adesso, glielo puntava al petto e gli ordinava di levarsi di torno:

«Ho già ucciso» diceva, «Non ho paura di rifarlo».

«Sì che avete paura» disse l’uomo che veniva da Roma, «Altrimenti io sarei già a terra e voi stareste correndo per i vicoli di Napoli» la fiamma dello zolfanello andava a morire, e l’uomo che veniva da Roma si chiese se il Maestro gli avrebbe dato il tempo di accenderne uno nuovo. Continuò: «La marchesa Colonna vi aspetta davvero a Palazzo Cellammare: fuori dalla vostra stanza, ho lasciato una bisaccia con dentro delle vesti pulite per voi. Papa Paolo V sta pensando a una revoca della vostra condanna».

Lo zolfanello si spense, rinnovando il buio della stanza. L’uomo che veniva da Roma abbassò lentamente la mano verso la tasca: lì stavano gli zolfanelli e batteva la sua ferraglia. Egli avrebbe preso gli zolfanelli ma forse, pensò, il Maestro avrebbe creduto che egli cercava la daga e l’avrebbe colpito. Abbassò lo sguardo sul pugnale e vide le mani da mastro ferraio dell’uomo che aveva di fronte. Non pensò al dolore, alla morte che forse sarebbe arrivata, ma soltanto che sì, quelle erano mani tozze, fatte per tirare pugni: erano mani che avevano ucciso e che avevano anche reso gloria a Dio.

 

Un racconto di Andrea Tarabbia

illustrazione di Nora

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