Abituarsi

Appoggio i gomiti sul tavolo, accanto alla frase che incidemmo anni fa nel legno, quando ti presentasti al pub sfoggiando il tuo primo tatuaggio e ridendo a squarciagola, nonostante sapessi benissimo che da lì a qualche ora i tuoi genitori ti avrebbero rinchiuso in camera urlandoti dietro. Bevevi troppo e continuavi a ripetere che avevi le vertebre staccate, quella notte, avevi le vertebre staccate, la rabbia che volava via dalle vene, le frasi in disordine. Mi giurasti che avresti messo a posto il casino che ti trovavi in testa, ma non in quel momento, dicesti, perché non si scrive bene quando si è ubriachi, quando hai l’esofago in fiamme e il t9 che ti corregge le parole, te le cambia, e poi il mattino dopo ti ritrovi con un post-sbornia da paura e i pensieri di qualcun altro in tasca.
Eppure quella notte eri felice. Impugnasti un coltello e ricopiasti il tuo tatuaggio sul tavolo, accanto alle nostre birre.
Mentre ti aspetto mi cade l’occhio sulla scritta, quel awake and unafraid che spicca in mezzo alle tovagliette gialle di carta. Accarezzo le lettere per cinque, sei, venti secondi. Poi mi fermo e mi guardo la mano. Ho le tue abitudini. Credo che si finisca così, prima o poi, quando passi tanto tempo con qualcuno e ti fai influenzare dai suoi dettagli.
Ho le tue abitudini e tu le mie, perché appari all’improvviso senza annunciarti, senza avvertirmi, senza neanche schiarirti la gola, come faccio io di solito. Sposti la sedia e ti ci siedi sopra, sorridendomi.
Ordini il tuo cocktail preferito, quello che assaggiasti in Portogallo tre anni fa e che ti fece innamorare. Jayce ci prova sempre, a replicarlo per te da dietro il bancone, ma ogni volta c’è qualcosa che non va, due millilitri di Sambuca in più, un cubetto di ghiaccio in meno. Viene a salutarci in una delle sue pause striminzite, Jayce, e poggia il bicchiere sul tavolo esordendo con la solita frase: amico, il tuo cocktail non ha nemmeno un nome. Ridi. Rispondi che è così che dev’essere.
Quando si allontana ti volti verso di me.
«Come stai?»
Scrollo le spalle. «Sto.»
Annuisci.
«E tu?»
«Come sempre.»
Inclini la testa di lato e noto un taglio nuovo che ti attraversa la tempia destra. Penso che con la tua rabbia potresti spaccare in due il pianeta, come fanno quei musicisti che ci piacciono e che sfasciano le chitarre sul palcoscenico. Forse abbiamo bisogno di distruggere qualcosa, di tanto in tanto, per sentirci in pace con l’universo, per calmarci, per sederci su un letto singolo, come fanno i genitori dopo aver litigato, e poi prendere un respiro profondo e dire al mondo che può togliere le coperte dal divano e tornare a dormire sotto il nostro stesso soffitto.
Ti sfiori il taglio con un dito. «Non fa male.»
«Lo so.»
È questo il problema.
«È praticamente già guarito.»
«Lo vedo.»
Ti mordi il labbro inferiore e io vorrei urlare.
Un ragazzino s’intrufola nella nostra conversazione e chiede se può prendere la sedia su cui sei seduto. Aggrotto le sopracciglia. Jayce lo affianca, gli appoggia una mano sulla spalla e lo rimprovera con lo sguardo. «Scusatelo, pensava che Nathan se ne stesse andando.»
Sorrido dicendo che non c’è problema, che non ha disturbato.
Torno a guardarti, una sospiro che mi s’infila tra i denti. «A volte le persone non le capisco.»
«Nemmeno io» rispondi.
Al tavolo dodici, il ragazzino continua a lanciare occhiate indagatorie verso di te, la tua sedia, il tuo cocktail. Cerca di capire dove sei.
Passo due volte il dito sulla n.
Glielo dico io dove sei. Sei in un letto singolo con le vene aperte e il mondo sul divano.

 

Un racconto di Fabiola De Santis

Illustrazione di Tancredi Vasile

Lascia un commento