La sottile linea d’alcol

“Avanti, Libero!” gridò l’amico con il ciuffo “raccontagli della Dea”
“Non sono dell’umore giusto,” ribatté Libero “magari un’altra volta.”
“Forza, non farti pregare,” lo incalzavano i compari seduti tutti attorno “vogliamo sapere della Dea!”
Libero sollevò il boccale e brindò. “E va bene, se proprio volete,” disse “state bene a sentire. Fu un’estate di circa tre anni fa. O forse erano quattro. Non ricordo. Erano tre o quattro?” domandò Libero all’amico con il ciuffo.
“Quattro,” rispose lui.
“Giusto,” riprese Libero. “Fu un’estate di quattro anni fa e, non chiedetemi per quale cazzo di motivo, decidemmo di passare il ferragosto in montagna. Io la odio, la montagna. La odio d’inverno, perché non so sciare, andare a caccia d’orsi o fare qualsiasi altra cosa si fa in quella stagione, e la odio d’estate, perché non c’è il mare, i laghi sono freddi ed è pieno di crucchi in calzoncini. Di quelli è pieno anche al mare, in effetti. I crucchi sono un po’ ovunque, maledizione.
Comunque. Quell’estate, come vi dicevo, siamo andati in montagna, a Cortina. I primi giorni, inutile che ve lo dica, sono stati un cazzo di incubo. Pioveva, i locali costavano troppo e m’ero pure beccato il piede d’atleta nella doccia dell’hotel. Più d’una volta ho pensato d’andarmene e un pomeriggio c’ero così vicino che uno dei nostri dovette supplicarmi di non raccattare la mia roba e salire sul primo treno: “Una notte. Rimani ancora una notte,” disse “stanotte la fica a carrellate, me lo sento. Stanotte, se non te ne vai, la fica a carrellate, promesso.” Come facesse a esserne tanto sicuro, questo proprio non lo so. Fatto sta che, vuoi il caso, vuoi il destino, vuoi per un momento di misericordia dell’altissimo, c’aveva acchiappato. La sera, non appena mettemmo piede in discoteca, interi sciami di belle donne cominciarono a ronzarci attorno come le zanzare ronzano attorno a una lampadina accesa. Sorridevano, ammiccavano e alcune, le più intraprendenti, s’avvicinavano per ballare. Non potevo crederci, non volevo crederci. Tanta fica in quel modo, così tutta in una volta e così arrapata. Sembrava un miracolo.
I miracoli però, come ogni cosa, hanno il problema di esaurirsi e morire.
Tanta concitazione, tante vane promesse di coito e poi? E poi erano le quattro di mattina, ero sbronzo marcio e di tutte quelle belle fiche nemmeno l’ombra. Erano sparite, andate. Da chi? Da qualcuno più sveglio di noi, poco ma sicuro.
Mi prese la depressione, la depressione cronica. “È possibile che non ne vada una per il verso giusto,” pensai. Fu allora che la vidi.”

Uno dei compari, il più impaziente, lo interruppe: “Era la Dea?”
Libero bevve un sorso, si asciugò i baffetti dalla spuma e sorrise: “Proprio lei. La Dea Afrodite in carne ed ossa stava seduta su uno sgabelletto sbilenco a pochi passi da me e, meraviglia delle meraviglie, ben presto m’accorsi che non solo mi guardava, ma mi stava letteralmente divorando con i suoi languidi occhioni infuocati. Andai da lei. “Questo è il miracolo, il VERO miracolo,” mi dissi. Il resto, spiace confessarlo compari, perché so che di questi particolari vi nutrite con tanta ingordigia, non lo ricordo con chiarezza. Ricordo solamente le sue dita che s’avvicinano alle mie, i suoi lunghi capelli ricci scorrermi fra le mani, le sue dolci, dolcissime labbra di pesca assaggiare il mio corpo . Custodisco il ricordo di quella notte come si custodisce un sogno, senza la pretesa di doverlo svelare, perfino a me stesso.”
Il silenziò s’impossesso dei compari. Un silenzio di frustrazione, un silenzio amareggiato. Era davvero questa, la fine della storia?

Manco per il cazzo!

“La mattina seguente, però” continuò Libero “me la ricordo molto bene. Mi svegliai con un mal di testa d’inferno e le papille spappolate dal whisky.  La Dea riposava al mio fianco, avvolta nelle coperte. Alzatomi, seppur terribilmente sfasato e ancora barcollante, mi misi in testa di offrirle il risveglio che meritava. Feci una doccia, ingoiai un pugno di dentifricio, misi una maglietta e delle mutande pulite, chiamai alla reception: “Una colazione continentale, per piacere. E un mazzo di rose fresche, se possibile.” Dissero che le rose non erano fresche, risposi che andava bene lo stesso.
Il fattorino arrivò quindici minuti dopo. Lo ringraziai e, preso il carrello con il cibo e i fiori, mi accostai silenziosamente al letto, sedendomi accanto a lei.
La baciai, attraverso il lenzuolo e, dopo qualche stropicciamento, la mia bella Afrodite si levò dal sonno.
Era la prima volta che la vedevo alla luce del giorno e della sobrietà e, credetemi amici miei, non credo d’aver mai posato l’attenzione su una creatura più orribile, ripugnante e volgare di quella. I suoi occhi, quei languidi occhioni di fuoco che m’avevano catturato poche ore prima, somigliavano, più che a tizzoni ardenti, a due palline di merda, due palline di merda cagate da uno che ha mangiato sushi scaduto e non ha digerito. Le dita, che subito mi si avvinghiarono al petto, erano scheletriche, storte, rachitiche come quelle d’una strega e i capelli, i suoi adorabili capelli d’ebano curvo, non sembravano neppure suoi, ma una vecchia parrucca di poliestere che s’era messa in testa per farmi un brutto scherzo. Le labbra poi, le labbra di pesca, durante la notte s’erano fatte prugne muffe e grinzose. Prugne morte.”
“Era davvero così brutta?” domandò il compare impaziente.
“Lo conoscete il detto in tempo di guerra ogni buco è una trincea?” I compari annuirono. “Be’, io l’ho sempre amato, fino quasi a farne un dogma, ma in quella trincea, amici miei, io non c’avrei messo più piede nemmeno se m’avessero minacciato con un fucile puntato ai coglioni.
La cacciai a male parole, gettai le rose dalla finestra e mangiai la colazione. Il resto della vacanza fu, se possibile, ancor più deprimente, ma, in cuor mio, ringrazio ogni giorno le stelle per non avermi risparmiato quella dura, brutale lezione sullo stare al mondo. Spesso, ciò che separa una buona idea da una cattiva, un ottimo soggiorno da uno invivibile e una Dea dalla peggiore delle scorfane, è nulla più che una sottile, flebile, beffarda, ingannevolissima linea d’alcol.”

I compari risero, e Libero con loro. Alzati i boccali, brindarono all’alcol, il migliore amico dei soldati, la più bella maschera per tutte le brutture del creato.

 

Un racconto di Massimiliano Maggi

Illustrazione di Candida Leonforte

2 thoughts on “La sottile linea d’alcol

  1. Bel racconto, soprattutto i dialoghi e la voce narrante di Libero.
    Però a quel punto avrei fatto un’ulteriore chiamata alla reception e chiesto un occhiale di whisky di marca, del tipo con la montatura elegante, a linea sottile 🙂
    la Dea era ancora lì, a portata di mano, nascosta dietro una spessa Cortina di fumi dell’alcool: l’esperienza insegna che la realtà soggettiva finisce per essere molto più vera e tangibile di quella oggettiva. E, in fondo, non lo dicevano già i latini che “in vino veritas”?

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