L’interruttore

Ero tornata a casa dello zio, sulle sponde del lago, il luogo preferito di mio padre.

L’unico suono era il ticchettio di un orologio.

Dicevano che era iniziato così, come lo schiocco di un interruttore, e dove per anni c’era stato solo il silenzio, nella sua testa si era riversato uno sciame di voci.

Come ogni mattina, si era lavato, sbarbato e vestito di tutto punto per andare in ufficio.

A colazione mi aveva chiesto le solite cose e poi si era versato mezza zuccheriera nel caffellatte.

«Papà, non ti sembra di esagerare con tutto quello zucchero? Ormai hai un’età».

«Silvia la vita è amara, meglio prepararsi. E tu?».

«Lo sai, no? Nero. Come la mia anima».

L’avevo visto andar via, con il solito passo strisciato e un sorriso accomodante, diretto in posta, dove lavorava da venticinque anni.

 

Qualche ora dopo, nel bel mezzo di una traduzione di latino, Letizia della segreteria mi aveva fatta chiamare per dirmi che mamma stava venendo a prendermi.

A sei isolati di distanza, dietro lo sportello numero quattro dell’ufficio postale, mio padre aveva preso a dare i numeri.

Si era preso la testa fra le mani continuando a gridare che lo lasciassero in pace.

C’erano voluti ben due operatori della croce rossa per immobilizzarlo.

Per una settimana avevo guardato la versione sbiadita di mio padre stesa sulla branda del reparto psichiatrico, con i capelli spettinati e lo sguardo assente, imbottito dai medicinali.

Per mesi l’avevo osservato aggirarsi per casa come un soldato in trincea: scattava per un nonnulla, controllava dietro le tende, sotto il letto, negli armadi. Beveva un sorso d’acqua, solo da bottiglie sigillate, e poi gettava via il resto. Mangiava poco ed esclusivamente cibi confezionati.

Non parlava quasi mai, non con noi almeno.

Più di una volta l’avevo sorpreso a voltare il capo di scatto come se qualcuno gli stesse gridando qualcosa all’orecchio, qualcosa che lo incupiva, che lo agitava, che lo faceva saltare come una molla.

A colazione non ci furono più domande sulla mia vita, né siparietti sul caffè.

Si riprendeva verso sera, ma solo per trasformarsi in quel soldato irrequieto e sotto assedio.

Per tre volte fracassò qualcosa in preda alla rabbia: un televisore, il suo portatile e il microonde, diceva di non sopportare le onde elettromagnetiche, perché in quelle interferenze riconosceva la voce di suo padre, morto da tempo.

Mamma si era trasformata in una statua di sale: non se la prendeva quando lui iniziava ad insultarla o l’accusava di volerlo uccidere, avvelenando il suo cibo o progettando di accoltellarlo nel sonno.

Le si inumidivano gli occhi solo quando lui mi gridava di essere una sua complice.

Alla fine, mamma decise di portarci tutti al lago, a casa dello zio, un carabiniere con una strana fissazione per le farfalle morte.

Ne collezionava a centinaia, spillandone i corpi fragili in teche di vetro esposte lungo i corridoi.

L’avevo sempre trovato raccapricciante, ma per la prima volta ero felice di trovarmi lì, con un uomo forte e sano nei paraggi, qualcuno che avrebbe potuto placare gli scatti d’ira dell’ombra inquieta che si muoveva e respirava nel corpo di mio padre.

La quinta mattina dal nostro arrivo, mi accomodai attorno al tavolo della sala da pranzo e mi stupii di veder comparire papà, vestito bene, sbarbato e stranamente lucido.

Mamma si affrettò a versargli una tazza di caffelatte e per un attimo le nostre dita si incrociarono sulla zuccheriera.

Guardai mio padre, lo guardai per la prima volta in tre mesi e mi sfuggì un timido sorriso.

Eccolo lì l’uomo che mi aveva mostrato la costellazione dell’Orsa Maggiore, e l’aveva riprodotta per me con una manciata di caramelle sulla trapunta viola del letto matrimoniale, una notte in cui non riuscivo a prendere sonno per via dei tuoni, e mi ero sdraiata fra di loro, in quello spazio in cui nulla riusciva a spaventarmi.

Mio padre, l’uomo gentile che sollevava gli occhi al cielo quando mamma iniziava a blaterare di centrini, tende e mobili d’antiquariato, anche se lui voleva leggere qualche scrittore russo, ma per lei richiudeva il libro e l’ascoltava veramente, per ore, mentre i raggi del sole illuminavano le pareti della cucina in quelle domeniche in cui tutto sembrava cristallizzato in un ozio profumato di cannella.

Nella sala da pranzo dello zio, durante quell’ultima mattina, sbattei le palpebre per scacciare i ricordi e gli passai la zuccheriera.

Quell’istante parve tendersi come l’elastico di una fionda, poi si versò la solita dose extra di zucchero come se fosse ancora lo stesso uomo.

Guardai i granelli scivolare giù dal beccuccio come una clessidra rotta e la mia voce uscì smorzata. «Papà, non ti sembra di esagerare con tutto quello zucchero? Ormai hai un’età».

Lui sembrò immobilizzarsi per un attimo, quasi cercando di riacchiappare un pensiero inafferrabile.

All’improvviso voltò la testa, rivolgendosi al vuoto, ma non parlò.

Cercai di trattenere le lacrime, mentre i suoi occhi opachi tornavano a posarsi su di me.

«Silvia, la vita è amara. Meglio prepararsi».

«È amara sul serio, vero?», domandai con quell’unica lacrima traditrice che scivolava sulla mia guancia.

Le sue dita affusolate, che per anni avevano compilato documenti e sfogliato pagine di libri polverosi, quelle mani che avevano sigillato ferite con cerotti colorati e sistemato ciocche di capelli dietro le orecchie, si posarono sulle mie come sospiri delicati e annuì, e in quell’unico gesto parve esaurire una pena indicibile.

Poi si alzò e scomparve lungo il corridoio tappezzato di farfalle morte.

Zio e mamma si scambiarono un’occhiata impietrita e nessuno parlò per una buona mezz’ora.

Al termine della colazione, afferrai la zuccheriera per riporla al suo posto, ma un boato squarciò il silenzio, e mi scivolò dalle dita. Si frantumò sul pavimento e il contenuto si sparpagliò ovunque.

Mamma gridò e si precipitò in bagno, seguita dallo zio.

Per un minuto restai immobile con gli occhi fissi sui granelli di zucchero e sui frammenti di vetro, brillavano al sole come minuscole costellazioni capitate per sbaglio nel cielo ambrato delle mattonelle.

Trovai mia madre inginocchiata accanto al lavandino, tentava di afferrare i resti del cervello di mio padre con le mani imbrattate di sangue.

Lo zio passeggiava per il corridoio con l’orecchio premuto contro il cellulare, non si capacitava di quanto fosse stato stupido a lasciare la pistola d’ordinanza in cassaforte, protetta da una combinazione che conoscevamo tutti.

Mi appoggiai contro la parete e osservai con distacco il corpo senza vita di mio padre e i movimenti convulsi di mia madre, troppo violenti accanto all’immobilità di quella marionetta dai fili recisi.

 

Erano trascorsi sei mesi da quella mattina. Giorni lenti, pieni di domande difficili e di silenzi pesanti.

Sedevo nel salotto della casa in riva al lago e osservavo il cielo puntellato di stelle.

L’orologio ticchettava, macinando secondi di vita.

Ogni scatto era simile al rumore di un interruttore pigiato.

Fra le mani stringevo una tazza di caffelatte molto zuccherata.

La vita è amara, meglio prepararsi.

Un racconto di Giovanna Giordano

Illustrazioni di Maria Durando

e Martina Merletti

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

2 thoughts on “L’interruttore

  1. Ne ho letti altri di tuoi racconti, ma questo fa rivivere in me ricordi ancora integri di analoga situazione. È bello forte, ma è bello

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