_ Blog di racconti

1:150000

1-

Mio fratello aveva undici anni, due più di me, quando ci beccammo quella malattia orribile. Nessuno seppe mai chi avesse contagiato l’altro perché la prendemmo praticamente insieme.

La malattia aveva un nome ridicolo. Si chiamava impetigine bollosa.

I nostri corpi, nel giro di poche ore, si ricoprirono di vescicole e bolle piene di pus. Io ne avevo una enorme proprio al centro della schiena. Aveva la forma dell’Oceania. O almeno così diceva mio fratello. Io non sapevo neanche dove fosse l’Oceania e allora lui me la indicò sull’atlante.

Disse che la mia bolla era in scala 1:150000. Io non riuscivo a vederla ma la sensazione di prurito che provavo era fortissima.

Lui mi aiutava a grattare dove non potevo arrivare da sola e io facevo altrettanto.

Non stuzzicatele troppo, quelle bolle. Se proprio non riuscite a resistere soffiateci sopra. Se la febbre si alza troppo mettetevi una pezza bagnata sulla fronte. Cercate di non stare tutto il giorno a letto e magari approfittatene per studiare un po’.

Le raccomandazioni dei nostri genitori, prima di uscire per andare al lavoro, erano sempre le stesse.

La settimana dell’impetigine cominciò con l’eccitazione che precede un lungo viaggio. Nella mia immaginaria valigia avevo infilato tutti i giochi che avrei voluto portare con me.

Ma mio fratello ormai non aveva più voglia di giocare.

In quel periodo era sempre malinconico.

Papà ripeteva spesso che era colpa della pubertà e io mi convinsi che la pubertà fosse un’altra malattia, forse meno grave dell’impetigine bollosa, ma altrettanto invalidante.

Nonostante la noncuranza di mio fratello e il fastidio dovuto alle bolle, io ero felice.

Mi alzavo sempre tardi la mattina e la consapevolezza che sarei rimasta per un po’ di tempo lontano da scuola mi assicurava uno stato di perenne fibrillazione.

Non potevo ancora immaginare che proprio in quei giorni, sul povero vocabolario di una bambina di nove anni sarebbe stata scritta la definizione più pertinente della parola “terrore”.

Maledetta pubertà!

Quello scemo se ne stava sempre in disparte, seduto davanti alla finestra della nostra cameretta, a scrivere sul suo taccuino.

E io lo odiavo, principalmente perché aveva cominciato a trattarmi come un’estranea, e poi perché, mentre scriveva, aveva il maledetto vizio di succhiare il tappo di plastica della penna producendo un rumore davvero irritante.

L’impetigine bollosa su di lui non aveva avuto gli stessi effetti che aveva avuto su di me. Mentre io mi ero riempita di bolle e croste e continuavo ad avere una fastidiosa febbriciattola, già dal secondo giorno lui non accusava più alcun sintomo. Infatti mi venne anche il dubbio che, in realtà, mio fratello non avesse proprio niente e che mamma e papà lo avessero lasciato a casa solo per fare compagnia a me.

Forse anche per questo era di malumore e mi trattava con sufficienza.

Il terzo giorno mio fratello cominciò a fare discorsi strani: Lo sai che i gatti non sbattono mai le palpebre? Poi si mise a fissare un punto nel vuoto contando ad alta voce quanto tempo passava tra un battito di palpebra e l’altro e segnando tutti i dati sul suo taccuino.

Io mi rassegnai a giocare da sola.

Fuori la gente andava e veniva dal supermercato con le buste della spesa, il traffico intasava l’incrocio, e alcuni operai sui ponteggi stavano costruendo un palazzo proprio di fronte a casa nostra.

Quella sera, prima di addormentarmi, pensai all’Oceania e alle palpebre dei gatti. E ricordo che fu quello il momento esatto in cui capii che io e mio fratello ci stavamo perdendo per sempre.

Il quarto giorno, dal nulla, se ne uscì con un’altra perla delle sue. Disse che il genere umano si sarebbe estinto molto presto sepolto dalle automobili e dal cemento. Lo disse come parlando a se stesso e infatti io non gli diedi corda, ma quando proclamò che lui se ne stava lì ad aspettare quel preciso momento per poter annotare tutto sul suo taccuino, obiettai che, secondo il suo ragionamento, anche lui, in quanto appartenente al genere umano, avrebbe dovuto fare la stessa misera fine che prospettava per tutti gli altri. Reagì malissimo diventando cattivo: Zitta, idiota, tu non capisci niente! Quando comincerai a crescere?

Volevo bene a mio fratello ma quando mi trattava così lo detestavo.

E non sopportavo che mi chiamasse idiota.

Mi infilai a letto con un libro e non parlammo più fino al ritorno dei nostri genitori.

Il quinto giorno mi resi conto che a leggere facevo più fatica del solito. Non c’era abbastanza luce. Eppure fuori c’era il sole. Stanno finendo il palazzo, disse mio fratello leggendomi nel pensiero. Ecco un’altra cosa che aveva cominciato a fare: leggere nel pensiero. Mi alzai dal letto e andai anch’io a guardare fuori dalla finestra.

Il palazzo in costruzione era arrivato così in alto da oscurare il sole.

A volte in casa calava un silenzio strano e non si sentiva più nemmeno quel rumore terribile che mio fratello faceva succhiando il tappo della penna. Quando succedeva, e succedeva sempre più spesso, sapevo che mio fratello si stava allenando a non sbattere più le palpebre.

Voleva tenere gli occhi aperti il più possibile, diceva, per non perdersi neppure un istante di quello che accadeva là fuori. Non che fuori succedesse qualcosa di nuovo: le automobili continuavano a intasare l’incrocio, la gente entrava e usciva dal supermercato con le buste sempre più piene, e gli operai, ignari delle convinzioni di mio fratello sulla prossima fine del mondo, continuavano a lavorare.

Quella storia delle palpebre poi diventò una vera e propria ossessione. Mio fratello smise persino di mangiare per poter stare più tempo possibile davanti alla finestra, vigile e attento.

Il sesto giorno mi arrabbiai con lui. Era diventato insopportabile, e glielo dissi. Gli dissi che quello che stava facendo era la cosa più stupida del mondo, che mi ero informata su internet e che quel giochino lì ai gatti riusciva perché i gatti hanno una terza palpebra quasi invisibile, ma gli uomini no. Cercai di convincerlo a staccarsi da quella finestra, lo insultai. Speravo in una sua reazione, ma niente di quello che dicevo sembrava scuoterlo.

Poi accadde quello che mai mi sarei immaginata.

La mattina del settimo giorno lo trovai, come al solito, seduto davanti alla finestra. Aveva ripreso a scrivere e a succhiare smaniosamente il tappo della penna.

Mi stava facendo arrabbiare.

Mi avvicinai per dirgli a brutto muso di smetterla.

Quando lo guardai in faccia il respiro mi si bloccò in gola.

I suoi occhi erano spalancati. Le pupille erano quasi scomparse dietro una patina biancastra. Masticava il tappo con vigore e non smetteva di scrivere. Una spessa coltre d’inchiostro riempiva le pagine del taccuino, come se le parole, migliaia di parole, fossero state scritte una sopra l’altra.

Rabbrividii.

Quando sfiorai la sua spalla, mio fratello cadde dalla sedia, fulminato.

Gli occhi ancora spalancati, il taccuino stretto in una mano, la penna nell’altra. Il tappo, ormai ridotto in poltiglia, rotolò fuori dalla sua bocca.

Come il cuore di una gallina appena sgozzata che continua a battere, così mio fratello continuava a scrivere senza dare altri segni di vita.

Mi misi a urlare più forte che potevo.

All’improvviso lui si fermò.

Nel silenzio sentii il mio cuore pulsare con fragore contro le costole.

Mio fratello era immobile, rannicchiato sul pavimento.

Mi chinai.

Era diventato rigido e freddo.

Pensai che fosse morto e non sapevo proprio come avrei fatto a dirlo a mamma e papà.

2-

Di solito quando a casa aspettavamo il dottore, mia madre rifaceva i letti e ci cambiava i pigiami perché diceva che dovevamo odorare di pulito. Quella volta fu diverso. I letti erano disfatti, la stanza era tutta in disordine e l’unico odore presente era quello della mia paura. Io me ne stavo sotto le coperte, sudata. La febbre era di nuovo alta. La schiena mi prudeva tantissimo. Sentivo le voci dei miei genitori nell’altra stanza e quella del dottore che diceva cose che non capivo. Mio fratello non era morto, ma secondo me ci era andato molto vicino. Ora era nel suo letto. Aveva gli occhi chiusi, finalmente. Dormiva. Il suo taccuino era ancora sul pavimento vicino alla finestra. Mi alzai per raccoglierlo e lo sfogliai.

Non si capiva niente di quello che c’era scritto. Tornai a letto e mi addormentai. Mi svegliarono più tardi le urla dei miei genitori che stavano litigando nell’altra stanza. Andarono avanti per dieci minuti buoni, e alla fine mia madre scoppiò a piangere e si chiuse in bagno. Dopo un po’ la porta della nostra camera si aprì, io strinsi forte gli occhi e finsi di dormire. Era mio padre. Si avvicinò al mio letto e mi diede un bacio sulla fronte, poi andò da mio fratello, lo prese in braccio e lo portò fuori.

Quella notte provai a riaddormentarmi ma non ci riuscii. Nelle orecchie continuavo a sentire il rumore odioso del tappo succhiato e masticato, e se chiudevo gli occhi, dietro le palpebre potevo vedere la bolla a forma di Oceania che lentamente cambiava scala e cresceva sulla mia schiena.

Un racconto di Aaron Ariotti

Illustrazione di Marco Pellino

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