Il segreto della marchesa Gallo

La Marchesa Gallo era bella e triste. La pelle bianca, i capelli e gli occhi neri. Le sue labbra sottili non sorridevano mai. Qualche volta si sollevavano un poco, ma tornavano subito indietro, forse per non farsi scoprire. Io, però, le scoprivo sempre. E la Marchesa lo sapeva. I sorrisi della Marchesa Gallo erano il nostro piccolo segreto.

Avevo un altro segreto con la Marchesa, ma questo lei non lo sapeva. Ogni domenica mi alzavo presto e correvo a piedi scalzi per i lunghi corridoi del Palazzo.

Vivevamo lì da qualche anno, da quando mi avevano detto che non potevo andare più a scuola e che pure da Torino dovevamo andarcene. Mi ero messa a piangere: perché i miei compagni sì e io no? Forse perché avevo il vizio di mangiarmi le unghie. La maestra mi aveva avvertita – I vizi sono peccati! – forse ero stata punita. Un giorno, però, mamma mi aveva spiegato che era perché eravamo ebrei e certi uomini cattivi ci davano la caccia.

Appena arrivammo a Palazzo Gallo decisi che ero una principessa nascosta in un castello e che prima o poi un eroe sarebbe venuto a salvarci. Mamma e papà stavano sempre con me, non andavano più a lavorare. E poi c’era la Marchesa.

Tutte le domeniche attraversavo i corridoi del Palazzo a piedi scalzi, mi acquattavo dietro la porta del suo bagno personale e la spiavo dal buco della serratura. Memorizzai prestissimo la sequenza dei movimenti e più li conoscevo più li aspettavo. Per prima cosa la Marchesa si scioglieva i capelli, e quelli ricadevano come una cascata sulla sua schiena. Poi si sbottonava la gonna e la scavalcava con le sue gambe lunghe e sottili. I bottoncini della camicetta cedevano uno alla volta liberando i piccoli seni. Finalmente anche la sottana le scivolava di dosso e conoscevo la Marchesa come nessun altro al mondo.

La Marchesa Gallo trascorreva proprio tanto tempo nella vasca da bagno. Io mi guardavo le mani, le scoprivo nere di polvere e le strofinavo. Se c’era dello sporco sotto le unghie subito le accorciavo con i denti. La Marchesa prendeva la sua spugna giallo pallido e la immergeva nell’acqua, poi la sollevava e se la strofinava addosso, liberando tutto il pulito che aveva trattenuto e spalmandoselo sulla pelle. Apriva la bocca mentre si passava la spugna sulle braccia, sulla faccia, sui seni. Quando usciva dal bagno era addirittura più bianca e più bella di prima.

Un giorno la Marchesa venne da noi senza sorridere, nemmeno per sbaglio. Venne a cacciarci dal suo palazzo: c’era un ospite importante a cena, ci aveva riconosciuti e se non sparivamo subito saremmo morti tutti. Non riuscivo a crederci. Le orecchie mi fischiavano forte, mi tremavano le gambe e mi faceva male la pancia.

La Marchesa era cattiva.

La lasciai lì a discutere con i miei genitori e corsi nel suo bagno. Volevo toglierle ciò che aveva di più caro. La vidi subito, la sua spugna gialla. Era asciutta, ruvida, bucherellata. La stritolai tra le mani, cercando di appallottolarla. Quella mi resisteva: tornava sempre com’era. Me la nascosi sotto la maglietta e tornai dagli altri tenendomi le braccia sulla pancia, fingendo che era per il dolore.

Salimmo su una bicicletta cigolante: papà pedalava, mamma era seduta sul sellino e io nel cestino per la spesa. Dovevamo percorrere cinque chilometri senza incontrare nessuno, fino a un paesino dove avevano già cacciato tutti gli uomini cattivi.

Del viaggio ricordo solo mamma che piangeva ma che, quando la guardavo, fingeva di sorridere e papà che pedalava così forte che se era il Giro d’Italia vincevamo di sicuro. E poi mi ricordo che ci ricoprimmo di fango, forse per questo nessuno ci vide.

Quando arrivammo a destinazione c’erano delle persone che ci aspettavano. Ci abbracciarono forte anche se eravamo tutti schifosi. Ci portarono in una casa molto più piccola di Palazzo Gallo e io morivo dalla voglia di raccontare a tutti che ero stata una principessa in un castello.

Più tardi mia madre mi portò a lavarmi ma io le feci segno di allontanarsi. Appena uscì dalla stanza, mi feci scivolare i vestiti di dosso, sistemai il mio piccolo tesoro sul bordo della tinozza, mi ci immersi e infine, lentamente e con cura, ci immersi anche lei: la spugna giallo pallido della Marchesa Gallo. La sollevai solo quando fu abbastanza pesante, poi me la strofinai addosso fortissimo. Nessuna goccia di fango mi doveva restare appiccicata addosso. E, mentre mi ripulivo, piangevo. Perché ero salva, perché la Marchesa era cattiva, perché non avrei mai più rivisto la sua pelle bianca.

 

Un racconto di Maria Luigia Abbruzzese

Illustrazione di Sofia Petrucci

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