Io, piccolo diavolo

«Tra i quattro o cinque ragazzi della mia classe che forse non sarebbero finiti in riformatorio, c’era Daniele: un metro e quaranta di ragazzino, faccia da scemo, testa ricoperta da riccetti piccoli e biondi che parevano gusci di lumache, mezza checca, panza da sessantenne alcolizzato e nemmeno quattordici anni. In pratica c’aveva scritto in faccia: vi prego bulli, menatemi.
Pensate che una volta Manfredi, il re dei bulli, ha cercato di infilarlo nell’armadietto dei materiali scolastici. Lo stava insultando a suon di saccodimerda, budrione, cotechino, quando li ho visti. Daniele era sdraiato per terra, tutto rannicchiato, le ginocchia che gli arrivavano in bocca; Manfredi mi aveva salutato, poi aveva ripreso a prenderlo a pedate.
Ora, meglio chiarirlo subito, ci sono solo due cose che non posso tollerare: i soprusi, e chi guarda i soprusi senza fare niente.
E quello mi sembrava proprio un sopruso.
Così ho mollato un pugno a Manfredi e da quel giorno io e Daniele siamo diventati amici.

Proteggere Daniele era la mia seconda occupazione: mi capitava di trovarlo legato al canestro della palestra con lo scotch da pacchi, o appeso per la canotta agli attaccapanni degli spogliatoi – chissà come facevano a reggerlo –, o pieno di cazzi in faccia disegnati con l’indelebile.
Lui piangeva, mi chiamava, io mi scazzottavo con Manfredi, che di solito era il responsabile, poi pacca sulla spalla e nemici come prima.
Mi piaceva. Mi faceva sentire una persona unica. Un supereroe. Simone l’Angelo Custode.

La volta peggiore di tutti è successa l’anno scorso. Immaginatevi la classe coi banchi agli angoli e la cattedra al centro: s’era fatta una pista e Manfredi e Pasquale pattinavano coi pattini a quattro ruote, di quelli che ci infili dentro le scarpe, per intenderci, e gli altri li incitavano. Io leggevo Proust e Daniele se ne stava seduto in fondo a mangiarsi il suo bel panino con la mortadella.
La prof era uscita dalla classe che piangeva, tanto per cambiare.
Comunque Daniele aveva la bocca e le mani completamente infarinate. Aveva finito il panino, doveva uscire dall’aula e allora s’era messo a strisciare col culo da un banco all’altro. Era quasi arrivato alla porta, quando con un piede ha toccato Manfredi. Quello s’è sbilanciato ed è caduto.
“Saccodimerda!”
“Scusa, scusami!” ha piagnucolato Daniele, e poi è uscito.
Pochi minuti dopo la prof è tornata col preside. Ci ha fatto alzare, sistemare i banchi a ferro di cavallo, così ora posso controllarvi tutti, un lavoraccio insomma. Quando la classe era sistemata, mi sono accorto che Daniele non era ancora tornato.
Ho alzato la mano per avvisare.
“Prof, manca Pirola”.
Nel frattempo Manfredi era entrato in aula e io non mi ero neanche accorto che fosse uscito.
“Oh prof scusi, sono andato a pisciare”.
“Una nota sul registro non te la toglie nessuno, Manfredi!”
E lui rideva, diceva “sì, c’ha ragione, ci vuole proprio”.
Ho alzato ancora la mano.
“Prof, Pirola non è in classe. Posso andare a cercarlo?”

C’ho impiegato un po’ a trovarlo. Era chiuso in bagno, nell’armadio della carta igienica, s’era pisciato addosso. L’ho aiutato a rialzarsi, gli ho passato un fazzoletto.
“Dani, cazzo, perché non hai chiesto aiuto? C’è la segreteria qui accanto.”
Daniele piangeva.
“Mi hanno minacciato. Hanno detto che mi sgozzavano come un maiale se urlavo”.
“Ma non ti fanno niente, lo sai. Sei tu che li lasci fare.”
Nel frattempo la madre se l’era venuto a prendere.
Ho spiegato al preside l’accaduto, lui ha sospeso Manfredi, una settimana.
Quando è tornato, era arrivato il mio turno.

M’hanno trascinato negli spogliatoi durante l’ora di ginnastica, Manfredi, Pasquale e un altro paio di ragazzi della terza G. Mi hanno preso un po’ a pugni, sull’occhio, sul naso, sulla bocca, poi m’hanno spinto verso i cessi.
E chi era uscito dal bagno accanto? Daniele.
“Sai che fine fanno le spie, Simo?” mi ha detto Manfredi.
Ho guardato Daniele e gli ho detto: “Daniele, cazzo, vai a chiamare qualcuno!”
Ma lui è rimasto fermo.
“Vai. Vai a fare la spia. Ci piacciono le spie”. Manfredi parlava e Daniele non si muoveva.
Mi hanno spinto nel primo bagno, hanno dato un’occhiata in giro, poi Pasquale si è allontanato un momento.
“Manfre, qui ci son solo le turche”, ha detto.
Da dietro, Daniele frignava frasettine tipo “non fategli male, ragazzi, per favore” e a me era venuto da ridere perché quei coglioni volevano mettermi la testa nel cesso e si sono scordati di controllare che ci fosse effettivamente la tazza, ma volevo anche ammazzarli tutti, a partire da Daniele.
Ho sputato in faccia a Manfredi perché era il più vicino. E lui si è incazzato.
Mi ha preso per i capelli e mi ha fatto sbattere la testa, forte, sulla turca. Sangue dappertutto.
E poi una roba calda e gialla e la constatazione che mi avevano appena pisciato in faccia.

In ospedale ci ho passato tre settimane. Fratture: mandibola e mascella, e io che credevo fossero la stessa cosa. Setto nasale deviato. Sospetto trauma cranico. La faccia di Daniele sempre davanti a me. Voleva parlare, lui, voleva spiegarsi.
Una volta tornato a scuola, tutti mi guardavano. Non ero un bello spettacolo, credo.
Ho aspettato l’ultimo giorno. Era un sabato. Mi sono avvicinato a Daniele e gliel’ho detto, “possiamo parlare, ora”.
Mi ha seguito nei bagni come un cagnolino. Poi l’ho chiuso nell’armadio della carta igienica, col lucchetto, e me ne sono andato».

«Non è possibile!»
«Cosa?»
«Non è possibile e basta! Mica ti mandano qui perché chiudi nell’armadio un ragazzino!»
«Tu perché sei finito qui?»
«Spacciavo a scuola.»
«E tu?»
«Ho passato il cazzo sulla schiena di una mia compagna. Per scherzo.»
«Quindi non dire stronzate. Non si va in riformatorio per aver messo un ragazzino in un armadio.»
«Avete ragione. Manca l’ultimo dettaglio.»
«Cosa?»
«Poi, a quell’armadio, ci ho dato fuoco. Che vi devo dire, ci sono solo due cose che non posso tollerare».

Illustrazione: Maria Santinello

Martina Marasco

Martina nasce a Varese il giorno dell'amore, circondata dai sette laghi e dalle parole di Stendhal. Non ha mai imparato a gestire la rabbia, le cose e le persone, così ha cominciato a scrivere. Ama i cani, al punto che di solito ci si fidanza e ride al pensiero di aver scritto la sua biografia in terza persona.

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