Narrandom - Invidia_ Blog di racconti

Invidia

Eri contento quando tua mamma ti prendeva la coppa gelato, quella con la crema e la fragola, e vi sedevate sulla panchina al parco e c’era il sole, e faceva caldo e gli uccelli cantavano e tu eri felice perché avevi la mamma più buona del mondo che voleva bene solo a te. Eri così contento che non andavi a giocare con gli amici, ma ti sdraiavi con la testa sulle sue gambe e, mentre lei ti accarezzava i capelli, tu le davi i baci sulla pancia e le dicevi che le volevi bene perché il gelato era buono solo quando era lei a comprartelo.

Così passò tutto maggio e l’estate intera e sempre volevi andare al parco a mangiare gelato e a dare baci alla pancia di tua mamma, poi arrivò settembre e la sua pancia non era più così morbida come prima e le giornate erano più fredde e il gelato ti stava per annoiare.

C’è qualcosa di sbagliato, non so cosa, ma c’è. ― le hai detto.

Non c’è niente di sbagliato. ― ti ha detto lei mentre ti accarezzava i capelli ―Tra poco avrai un fratellino.

Un fratellino? Ma quando?

Tra quattro mesi. Andiamo via tesoro, sta per piovere.

Spero solo che gli piaccia il gelato.

Il cielo era una maschera grigia e tu, allora, l’hai presa per mano e siete andati verso l’uscita, col vento che stava salendo.

Stavi per dare un abbraccio a tua madre, quando dalla stanza di Elia si alzò un pianto forte e cattivo, che la costrinse ad andare subito da lui. Sapevi che il demente l’aveva fatto apposta, perché ogni volta che stavi solo con mamma lui piangeva e allora lei andava da lui e tu restavi da solo.

Elia era nato “speciale, diverso da te”, almeno così diceva sempre tua madre, e tu sapevi che speciale voleva dire handicappato, mentre “diverso da te” voleva dire che lei doveva volere più bene a lui, perché un demente non può vivere senza qualcuno che lo imbocchi a tavola, che gli tagli la carne e che gli tolga le caccole dal naso. Tu ormai tutte queste cose le sapevi fare benissimo e quando tua mamma ti chiedeva di farle per il demente, ecco che tu improvvisamente tagliavi i pezzi di carne troppo grandi, o gli facevi bocconi di pasta giganti che gli cadevano su tutti i vestiti e il naso glielo facevi soffiare stringendo così forte il fazzoletto da farlo piangere e allora la mamma ti spostava e ti diceva che eri cattivo e che dovevi andare in camera, che non ci si comporta così con i fratelli. E tu urlando e piangendo le dicevi che la odiavi e che odiavi anche quel demente e sbattevi forte la porta alle tue spalle.

Dalla camera sentivi tua madre fare l’aeroplanino col cibo per far mangiare l’handicappato, e ascoltavi le loro risate e allora hai capito che tua mamma non ti avrebbe mai voluto bene quanto a lui perché lui era “speciale” mentre tu eri solo “diverso da lui”. Hai capito, mentre le loro risate ti facevano tremare di rabbia il cuore, che anche tu dovevi diventare speciale, così sei uscito silenziosamente dalla camera e sei andato in cucina. Dal cassetto della credenza hai scelto il coltello con la lama più affilata, l’hai poggiato sul mignolo della mano sinistra, hai stretto i denti, e l’hai inciso fino all’osso. Solo quando il sangue ha cominciato a sgorgare forte hai urlato con quanto fiato avessi in gola.

Tommaso che è successo?

Mamma! Mamma! Vieni. ― hai urlato arrabbiato.

Non posso lasciare Elia qui, vieni te! ― disse tua mamma senza uscire dalla sala da pranzo.

Mamma! Vieni, mi fa male! ― hai urlato ancora più forte.

Arrivo, ma se non ti è successo niente le prendi! ― ha detto lei venendo verso la cucina.

Siete andati subito in ospedale e lei era preoccupata più che per il tuo dito perché aveva dovuto lasciare Elia con la nonna e lei non si fidava della nonna, perché era vecchia e non poteva badare bene all’handicappato, e quindi chiedeva a ogni medico o infermiere che vedeva di medicarti velocemente. Era come se non volesse stare con te neanche adesso che eri ferito, che eri più simile a Elia. Eri triste perché volevi il gelato e volevi stare al parco col sole a baciare la pancia di tua mamma e invece sentivi che lei, mentre ti accarezzava i capelli, pensava a Elia e non a te. Grazie al taglio del dito eri riuscito a restare, per la prima volta dopo più di due anni, da solo con tua madre per tre ore.

Deve venire per forza anche lui? ― hai detto indicando Elia e la sua sedie a rotelle per bambini speciali.

Non fare storie Tommy. ― ti ha rimproverato tua mamma.

Quando mi sono rotto il braccio hai promesso che saremo andati al parco da soli. ― ti sei lamentato indicando l’handicappato che stava sorridendo e sbavando allo stesso tempo, guardando la palla che tenevi nel braccio sano. Romperti il braccio non era stato troppo doloroso e poi, soprattutto, i due giorni passati con mamma a coccolarti ti avevano fatto dimenticare di quel piccolo prezzo da pagare.

Nonna non può venire, ha un impegno, e quindi Elia viene con noi. Così giocate insieme.

Io non gioco con gli handicappati.

Basta Tommy. Sei un bambino cattivo e al parco non ci andiamo più.

Tu allora ti sei arrabbiato, hai puntato gli occhi su quelli spenti del demente, hai fatto rimbalzare la palla a terra e poi l’hai calciata con tutta la forza mandandola contro la faccia dell’handicappato.

Uno strano suono è uscito dalla bocca di Elia, lacrime, sangue e bava si sono mischiati alle sue grida, formando un suono acquoso che ti ha ricoperto il corpo.

Tommaso che cazzo fai! Sei un deficiente― Ti ha detto tua madre e subito ti ha dato uno schiaffo.

Io lo odio quell’handicappato di merda, mi ha rovinato la vita― le hai detto piangendo ―Io sono meglio di lui, non mi devi imboccare, so camminare, so tagliare la carne col coltello, io non ho bisogno di te ed è per questo che non mi vuoi più bene.

Hai capito cosa dovevi fare qualche tempo dopo, una sera in cui, in seguito all’ennesimo litigio a causa dell’handicappato, tua mamma ti aveva mandato a letto senza cena.

I tagli sulle dita si rimarginano, gli arti rotti dopo pochi mesi si ricalcificano, i lividi spariscono e le lacrime si asciugano.

Hai capito che avevi bisogno anche tu di un handicap che non potesse guarire.

Siete seduti sulla panchina di sempre. Il tuo braccio destro è guarito, a essere ingessato questa volta è il piede sinistro, ma non è per quello che sei stato portato al parco. Stai mangiando il gelato, quello buono per cui vuoi bene a tua madre e c’è il vento che ti scompiglia i capelli e gli alberi, che tu non lo sai ma ti stanno salutando con le chiome furiose.

Elia sta bene, ho sentito la clinica. ― dice tua madre, che tu non lo sai ma sta piangendo silenziosa, riempiendo di lacrime salate il gelato nelle sue mani.

Muovi la testa in direzione della sua voce e allunghi il braccio cercando di carezzarla. Tocchi le orecchie, incontri i capelli, passi sugli occhi e finalmente arrivi agli zigomi che inizi ad accarezzare.

Andrà tutto bene mamma. ― le dici con gli occhiali scuri rivolti verso di lei.

Delle macchie che colorano la tua maglietta neanche sai dell’esistenza, con la varecchina si leverebbero facilmente, come per la tua vista, come per tuo fratello.

Stai pensando che, ora che sei cieco, tua madre ti amerà per sempre e mentre pensi questo cali la testa sulle sue ginocchia, assapori il vento che ti anima le labbra e baci la pancia di tua madre. La trovi dura come non dovrebbe essere e pensi, ancora una volta, a quale arto dovrai tagliarti, a quale senso dovrai perdere, a quale ferita incurabile dovrai procurarti per farti amare per sempre da tua madre.

 

Un racconto di Giulio Fenelli

Illustrazione di Luca Druella

Giulio Fenelli

Romano DOC. Da piccolo ha frequentato corsi di equitazione circense, golf, tennis, sci alpino e appenninico, e nel tempo libero scriveva poesie. Poi ha conosciuto il whiskey e le sigarette, e alle poesie non ci ha più pensato. Sogna in piccolo: gli basterebbe scrivere il nuovo Notturno Cileno e timonare il suo Pequod.

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