Elio_Narrandom_ Blog di racconti

Elio

Quando era piccolo, al mare, Elio si divertiva a spingere sua cugina Gaia sott’acqua e a trattenerla con la mano per vedere quanto riuscisse a resistere. Era un gioco per lui, come i tuffi, i castelli di sabbia e la caccia alle conchiglie.

***

Elio si accarezzò delicatamente le guance e il profumo di dopobarba si diffuse per tutta la stanza. Si guardò allo specchio, non era cambiato poi molto, anzi non era cambiato per niente. Eppure c’era qualcosa che stonava in quel riflesso. Si sporse sul lavandino, e si avvicinò il più possibile alla sua immagine sfiorando insistentemente con un dito una rughetta al lato dell’occhio, come potesse cancellarla al tocco del polpastrello. Cercò di non pensarci, andò in camera e mise gli occhiali. Era lì, sul tavolo, l’estremità superiore aperta senza pietà, i caratteri neri e precisi dell’indirizzo disegnavano parole francesi. La fissava mentre indossava l’orologio. Continuava a fissarla mentre lo agganciava. Prese la busta e rilesse la lettera.
Bordeaux. L’università di Bordeaux. Specialistica in cardiochirurgia, quello che desiderava sin dall’inizio. Gettò la busta sulla scrivania e si affrettò a uscire. Lasciò una scia di profumo per le scale e raggiunse di corsa l’angolo della Piazza. Erano tutti lì ad aspettarlo, i suoi amici. Chi gridò, chi gli saltò addosso, chi gli strinse la mano, tutti con l’affetto di sempre, lo stesso da anni.
«Sei arrivato a 27, vecchio»
«Ventisette anni e non sentirli, nonno!»
Andarono a bere. Il pub era pieno come ogni sabato. Riuscirono con fatica a conquistare il bancone e prendere la birra. Peroni, ovvio. Non fecero in tempo a chiedere che Cosimo, il barman, le stava già aprendo, le altre ve le tengo in fresco per dopo, aveva aggiunto. Usciti raggiunsero la Pentima lì di fronte. I gradini esterni dell’anfiteatro malriuscito davano sul mare, sulla spiaggia della Porta Vecchia. Si sedettero. Il vento sferzava i volti arrossati e il mare si gettava impetuoso sugli scogli, ma loro si ostinavano a sorseggiare birra chiusi nei giubbotti e con lo sguardo ipnotizzato dal via vai delle onde. Alla primavera mancava poco, per fortuna. La serata andò avanti tra passeggiate, discorsi annoiati, ore che trascorrevano per inerzia tra le strade attraversate mille volte. Stavano ricordando nostalgici la gita del quinto anno, quell’indimenticabile gita a Torino strappata al professore di greco prossimo alla pensione, quando Elio li interruppe per fare il suo annuncio.
«L’ho passato raga’. A settembre vado a Bordeaux e comincio la specialistica».
Il silenzio li accompagnò per un po’. Qualche complimento. Qualche domanda. Sguardi tristi e imbarazzati dalla propria tristezza. Era tardi ormai. Si salutarono e si diedero appuntamento per un cinema quella settimana.
Elio infilò la chiave nella serratura e la girò piano per non svegliare nessuno. Quando entrò, trovò la luce della cucina accesa. Seduta al tavolo, con una tazza fumante tra le mani, sua madre fissava la lettera. Lo sguardo puntato su quel rettangolo di carta era ostile, la fronte corrugata, le labbra sottili così serrate da sembrare un’unica linea rossa. Elio si versò del latte in un bicchiere e si sedette accanto a lei. Prese a raccontarle della serata, così, per attirare la sua attenzione e intercettare il suo sguardo. Ma lei non lo guardava. Lui parlava a lei e lei guardava la lettera.
«Mi stai lasciando sola»
«No, non ti lascio sola. C’è papà».
Lei lo guardò e si sforzò di sorridere. Si alzò. Prese ad accarezzargli delicatamente le spalle, Elio sentì il suo respiro che gli smuoveva i capelli. Poi vide con la coda dell’occhio l’esile figura uscire e i suoi passi si persero nel corridoio.

La mattina si svegliò che era mezzogiorno e la luce calda attraversava le fessure della tapparella. Gli arrivava dritta agli occhi. Non fece neanche colazione. Si vestì, uscì, svaligiò il panificio in via Garibaldi e poi tirò dritto verso Porta Vecchia. L’odore dei rustici appena sfornati era irresistibile. Ne mangiò subito uno mentre superava i pescatori seduti sui frangiflutti, fermi ad aspettare come statuine che un pesce abboccasse. Aveva fatto il giro lungo, così da godersi più mare possibile e farsi abbagliare dal gioco di luci e riflessi. Con quel sole, con quel tempo da primavera in anticipo, il mare era calmo. Ondeggiava come un ragazzo assonnato e indolente si dondola sulla sua amaca. Strappi di nuvole macchiavano il cielo azzurro. Elio raggiunse la spiaggetta e si fermò su un lembo di sabbia non invasa dalle alghe nere. Era lì, in piedi, immobile, a guardare il suo mare, ad imprimerselo nella memoria come una diapositiva.
«Elio!»
Si voltò di scatto, sorpreso dalla voce di sua cugina.
«Gaia. Che ci fai qui?»
«Lo stesso che ci fai tu»
«Mi hai seguito?»
Gli si avvicinò. Così, l’uno accanto all’altra, con i giubbotti invernali e la sabbia sotto le Adidas, guardavano il mare e la linea d’incontro col cielo.
«Quindi Bordeaux».
La guardò e fece sì con la testa sorridendo.
«Era ora, Elio. Hai paura?»
«No. Per ora no. È presto»
«Finalmente fuggi via»
«Sì. Però, a pensarci, non si sta mica male qui. Voglio dire, guarda! A Bordeaux non c’è tutto questo. A Bordeaux dove lo vedi un orizzonte così?»
«E che ne so. Me lo dirai tu a Natale»
«Tutta questa pace. Tutto questo spazio»
«Ma quale spazio, Elio? A me questo spazio mi sta stretto. E la pace che dici non è pace, è afa. Qui si soffoca»
«Non lo so»
«Hai presente quando eravamo piccoli, e stavamo in acqua per ore e uscivamo solo quando vedevamo i polpastrelli delle mani tutti arricciati?»
«Sì»
«Ecco, Elio. Ci si stanno arricciando i polpastrelli.»

 

Un racconto di Sara Bianchi

Illustrazione di Giuditta Bertoni

 

 

 

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