Monnalisa_Narrandom_ Blog di racconti

Monna Lisa 5-M1L3

Era una calda giornata d’inizio estate quando, in una stanza appartata del castello di Clos-Lucé, Leonardo dovette interrompere i suoi studi di geometria dopo essere stato per l’ennesima volta chiamato a mangiare una minestra che “altrimenti si sarebbe freddata”; correva l’anno 1518 ed egli era un vecchio dalla lunga barba canuta, la schiena ricurva ma gli occhi ancora vivaci, quegli occhi rotondi che trasudavano tutta la sua luminosa genialità.

Si avviò verso il corridoio che collegava la sua camera alle altre e, zoppicando un poco, a fatica, attraversò lentamente la saletta piena zeppa di schizzi, bozzetti, calcoli e disegni, modellini di legno e progetti d’un futuro troppo lontano. Stava passando vicino ad una strana sorta di marchingegno elicoidale, appeso al soffitto per una corda sottile, e una pergamena pregna di formule che recava il disegno d’una specie d’ala meccanica, quando gli capitò di buttare lo sguardo su “la Joconda”, il ritratto che, nei suoi viaggi, mai si era dimenticato di portare con sé. Si fermò un poco ad osservarlo, come era solito fare più volte durante le lunghe giornate di studio: la tela era posizionata in un punto costantemente illuminato, grazie a un gioco di specchi che Leonardo aveva appositamente studiato quando si era trasferito lì.

Sospirò profondamente, il vecchio inventore, scuotendo flemmatico il capo, poi, quando si mosse di nuovo, invece di procedere verso la porta fece dietro front, ripercorrendo claudicante parte della strada a ritroso; si fermò nei pressi di una grossa cassa di legno distesa per lungo sul pavimento, vicino alla sua scrivania. Si chinò adagio, con movimenti cauti, verso di essa; era del tutto simile a una cassa da morto, recante però in gran numero incisioni e simboli sul dorso.

Sul coperchio scuro, interamente in legno di ippocastano, si era depositato un fitto strato di polvere che egli andò a rimuovere, carezzando la superficie intagliata con le dita della mano di carne; poi portò l’altra, la destra, al petto, sotto la camicia di lino: al termine del polso le giunture metalliche stridevano e gridavano acute mentre la mano sintetica ruotava il giusto per consentire alle dita di piegarsi nel taschino, da cui tirarono fuori qualcosa di molto simile a un anello di ottone, a un sigillo, recante l’intarsio stilizzato dell’uomo vitruviano.

Non fece altro che inserirlo in una piccola fessura circolare alla sommità della cassa, e il coperchio scattò, prima in avanti, poi aprendosi di lato con un prolungato clangore meccanico. L’oblio del legno lasciò il posto alla sagoma d’una figura femminile, sdraiata di schiena nella bara, ben stretta da una quantità di legacci di canapa sotto le braccia e all’altezza del bacino, che la tenevano salda alla scatola; era bella, bella come la moglie di Francesco del Giocondo, stessi occhi, stessa pelle, stessi lineamenti delicati.

L’ombra d’un sorriso illuminò il volto di Leonardo, era un sorriso malinconico, incompiuto. Con la mano robotica andò a sfiorare la fronte della sua creatura, metallo sul metallo, freddo sul freddo, finzione nella finzione. All’altezza del braccio un piccolo squarcio rettangolare mostrava rotelline dentate e cavi; l’inventore si fece scuro in viso.

«Oh, mia cara… è troppo presto per te» sussurrò, con un filo di voce «è troppo, troppo tardi per noi…»

Scrutò i lineamenti di quella figura ancora per un secondo prima di portare nuovamente il sigillo ad incastonarsi nel coperchio; la cassa si richiuse subitaneamente e, a fatica, l’uomo si rimise in piedi.

«Battista!» gridò con voce roca «Battista!»

Intanto, passo dopo passo, era tornato ad approssimarsi verso l’uscita.

«La cassa. Devi sotterrarla immediatamente ai piedi della collina, in uno dei due cubicoli… Battista!»

Mentre attraversava la soglia, si fissava la mano destra; era così viva. Viva come se non appartenesse a lui. Sul suo viso s’intravvedeva un mezzo sorriso.

Illustrazione di Roberta Pagnotta

Luca Marinelli

Ha per tanto tempo pensato di essere un attore famoso. Poi si è reso conto che quello, a differenza sua, era nato in un carciofo alieno. Da allora scrive per compensare il distacco tra quello che è e quello che sarebbe voluto essere e con la scrittura si è fatto tanti amici. Alcuni di questi sono anche delle persone vere.

Lascia un commento