Sughero_Narrandom_ Blog di racconti

Tre tempi

18 febbraio 2015

In macchina c’è un caldo soffocante. Faccio ancora fatica a regolare la ventola del riscaldamento o ad abituarmi a quest’odore di nuovo. Claudio ci tiene all’auto, l’ha scelta lui e pretende che la tenga sempre pulita.
Dalla cima del belvedere, oltre il parabrezza, osservo la distesa di casupole puntellata di luci, un paesaggio perfetto incastonato fra le montagne, sotto un cielo d’inchiostro.
Per abitudine, sfioro il tappo di sughero che penzola accanto alle chiavi. È sporco e sembra che qualcuno l’abbia preso a morsi in più punti, è pieno di buchi, ma è l’oggetto a cui mi sento più legata.
Il click dello sportello mi riporta alla realtà. Claudio si accomoda sul sedile del passeggero, accompagnato da una folata di vento gelido, e finalmente mi sembra di tornare a respirare; ma lui è veloce a richiuderlo.
«Allora? Era il caso di trascinarmi fin quassù?».
«Questo posto ti è sempre piaciuto», dico, rigirandomi fra le dita il tappo di sughero.
«Non dopo una giornata di lavoro e con questo freddo cane».
Guardo la sua camicia bianca, ancora immacolata dopo otto ore d’ufficio, e mi viene voglia di passargli una mano fra i capelli per scompigliarglieli un po’, ma mi trattengo.
«Prima sono passata dall’assistente sociale».
Schiaccio il pulsante del vetro e l’abbasso quel tanto che basta per far entrare un soffio d’aria fredda. Sto sudando.
«Ne abbiamo già parlato, Sara».
«Ma la dottoressa è stata chiara. Non posso, Claudio. Le cure ormonali non servono a niente…».
«Perché non capisci? Dev’essere mio! E chiudi quel vetro, che si congela».
«Ma io ho caldo».
«Fai come ti pare, ma ricorda che fra due ore dobbiamo essere dai miei».
Serro le labbra, avevo dimenticato della cena per i cinquant’anni di matrimonio dei genitori di Claudio.
Lui esce dalla macchina senza aggiungere altro, e torno a osservare il panorama oltre il parabrezza.
Resto lì, mentre il cielo si va schiarendo, ignorando la vibrazione del cellulare finché non c’è solo silenzio, e per tutto il tempo non smetto mai di tastare i contorni del tappo di sughero.
A Claudio non è mai piaciuto, ma non voglio gettarlo via, me lo ha regalato mamma dodici anni fa, quando sono andata a vivere con lui.
Al primo bagliore di luce che spunta fra le due montagne, faccio inversione e mi lascio quel panorama perfetto alle spalle.


18 febbraio 1984

Oggi siete tornate a casa.
L’altro giorno sono entrata nella tua stanza d’ospedale, Margherita, e ti ho guardata dormire.
Volevo prendere in braccio la piccola Sara, ma ho avuto paura di fare troppo rumore e di finire per svegliarti.
È meravigliosa e ti somiglia davvero tanto. Sarebbe stata la prima cosa che ti avrei detto, la seconda è che sono orgogliosa di te.
Eppure non ho detto nulla. La verità è che non so più come parlarti da molto tempo ormai, per questo devo limitarmi a girarti attorno come una presenza silenziosa, il fantasma che un tempo amavi moltissimo.
Mi piace pensarla così, anche se mi rendo conto che, tra i due, hai sempre preferito tuo padre. Lui riusciva a capirti in un modo che ti faceva sentire speciale, mentre di me percepivi solo la parte dura e incline al giudizio.
Ora sei diventata una mamma, e spero che riuscirai a comprendermi meglio e forse anche a perdonarmi. Dodici anni fa sono stata una madre cieca, una madre ottusa, una madre troppo presa dal suo dolore per accorgersi del tuo.
Nessuno vuol rimanere incinta a sedici anni, ma spettava a te decidere, non a quella donna disgustosa.
Oggi capisco perché andasti da lei; non perché avevamo appena perso tuo padre, no, avevi paura di me e la madre di Luca ti sembrava l’unica opzione possibile.
Mi raccontasti tutto a cose fatte, con un filo di voce, sdraiata sul letto con il volto bianco come le lenzuola che ti avvolgevano. Volevo correre da quella donna e strozzarla, volevo che pagasse, che soffrisse come stavi soffrendo tu.
Ma tu me lo impedisti.
È inconcepibile quel che riescono a fare le persone in certe occasioni, ma ti abbiamo rovinata entrambe. Eppure tu, in qualche modo, sei riuscita a scrollarti di dosso quel dolore e ad andare avanti.
Io, invece, sono rimasta esattamente nello stesso posto: immobile e impotente.
Quel giorno, l’inizio di quella serie interminabile di giorni silenziosi che mi hanno trasformata in una comparsa e poi in un’estranea, qualcuna ridotta a chiedere di te a parenti e vicini, quel giorno, non lo dimenticherò mai.
Ricordo che stringevi tra le dita il tappo di sughero che appartiene alla nostra famiglia dagli anni cinquanta. Ricordo l’alone rosso del vino ancora impresso sulla punta, i bordi rovinati dalle tue dita che l’avevano già stretto un milione di volte, ricordo le esatte parole che pronunciò tuo padre regalandotelo: questo piccolo tappo è speciale, Margherita, se te ne prenderai cura, la fortuna sarà con te.
Oggi, più di qualunque altro giorno della nostra vita, vorrei trovare un modo per farti capire quanto è grande l’amore che un genitore prova per i suoi figli e quanto può diventare insopportabile il senso di colpa quando quei figli diventano adulti nel modo sbagliato, un modo che si poteva evitare, che io potevo evitare; ma le parole non basterebbero.
È tardi per tornare indietro, però non ho potuto fare a meno di frugarti nella borsa. Sapevo che l’avrei trovato lì.
L’ho preso e, cercando di non fare troppo rumore, mi sono seduta accanto a te e l’ho trasformato in un portachiavi. Non è stato difficile, ho avuto molto tempo per diventare brava con i lavori manuali, anche se avrei preferito passare quel tempo a vederti diventare la splendida donna che sei ora.
Ho un altro rimpianto: non essere riuscita a raccontarti la storia di quel tappo, ma forse trovandolo in borsa capirai, mi chiamerai e potrò tornare ad essere tua madre.
Sono ancora immobile, ma ti aspetto; Ti aspetterò sempre.


18 febbraio 1956

Gino non aveva più tempo.
Tutto quel che riusciva a vedere dalla finestra era un muro di neve bianca e impenetrabile.
Tre giorni e sembrava non dovesse finire mai.
Lucia aveva smesso di parlare la sera prima, dopo aver consumato il loro ultimo pasto, un piatto di pasta e fagioli, e da quel momento era rimasta sdraiata sul loro giaciglio accanto al camino ormai spento, con il pancione che gorgogliava.
Immobile come una statua di cera, una madonna in carne e ossa.
La loro modesta stanzetta era impregnata dell’odore pungente del pitale che non veniva svuotato dalla sera prima. Lui ci aveva provato, ma preferiva tenersi la puzza piuttosto di arrischiarsi ad aprire la finestra e far entrare il gelo e la neve.
Aveva spento la radio da qualche ora, le notizie scoraggianti sulla bestiale ondata di freddo che aveva colpito l’Italia non facevano altro che aumentare l’ansia di Lucia, e nelle sue condizioni anche il minimo spavento poteva esserle fatale.
La levatrice non sarebbe arrivata in tempo. L’intero paese si era trasformato in una distesa silenziosa di bianco. Un bianco che uccideva.
Le botteghe erano chiuse, i vicini di casa gli avevano già portato tutto quel che potevano, certo, non avevano avuto il cuore di voltare le spalle ad una donna incinta di otto mesi. Non a Lucia, che era sempre stata buona con tutti e s’era levata il pane di bocca più di una volta per aiutare chi era più povero di loro, e loro erano poveri sul serio.
Gino si avvicinò a quel fagotto di coperte tremanti e le scostò delicatamente una ciocca di capelli dalla fronte.
«Lù, vado dal sindaco a chiedere qualcosa da mangiare».
Lucia si schiacciò l’interno della guancia fra i denti, ma non rispose.
«Settimana scorsa gli ho sistemato la grondaia e non mi sono fatto pagare. Qualcosa mi darà. Torno presto, intanto stai al caldo e bevi questo».
Gino andò al mobile della credenza e prese l’unica bottiglia di vino rosso che avevano in casa. Gliel’aveva regalata un amico il giorno delle nozze e si erano promessi di aprirla dopo la nascita del loro primogenito.
Lucia scosse la testa.
«Bevi, ti scalderà».
«Prendila tu. Casa del sindaco è lontana».
Gino sorrise e stappò la bottiglia.
«Facciamo così, ne beviamo un goccetto a testa e mi porto il tappo. Quando torno la richiudiamo e aspettiamo che nasce Antonio per finirla».
«Margherita, Gino. Aspettiamo che nasce Margherita», ripose lei accarezzandogli la testa.
Gino bevve un sorso di quel vino corposo e gli sembrò che un incendio gli corresse giù per la gola, poi mise il tappo di sughero in tasca.
Infilò il giubbotto, diede un bacio a Lucia e spalancò la porta di casa.
Impiegò quasi sette ore per percorrere dodici isolati, scavando trincee nella neve alta due metri con le mani lacerate dai tagli.
Disseminò una scia di briciole di sangue sul manto immacolato e pensò che sarebbe morto un centinaio di volte. Le sue lacrime si cristallizzavano ancor prima di toccare le guance e dopo la prima mezz’ora smise di sentire le dita dei piedi.
Tuttavia, barcollante e stremato, non dimenticava mai di fermarsi ogni venti passi per frugare nella tasca dei pantaloni.
Stringeva il tappo di sughero e andava avanti, cantando più forte dell’ululare del vento tutte quelle ballate che aveva dedicato alla sua Lucia ogni sera, in piedi sotto la sua finestra, quando ancora non sapeva che era quella l’unica donna per cui avrebbe cantato per tutta la vita.

Un racconto di Giovanna Giordano

Illustrazione di Alessia Armari

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

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